Quando l’inno suona solo per te

Quattordicimila chilometri non solo semplicemente una distanza fisica, sono una misura di diversità culturale. Sono cinque fusi orari. Vite distanti, viaggi lunghi e storie che si dipanano lungo intrecci di momenti che sembrano non coincidere mai.

Una ragazzina con i capelli biondi, cresce in uno di quei posti che a guardarli molto da vicino, senza alzare mai lo sguardo, somigliano a mille altri, ovunque nel mondo. Quando però si guarda verso l’orizzonte, quegli stessi luoghi diventano, lontani da tutto.

Una storia di sacrifici, di quelli che fai tirandoti sulle spalle anche i sogni di altri. Di una vita che ti fa crescere troppo in fretta, di scelte importanti, arrivate troppo presto. Di talento musicale che non è apparente, ha la forma di una borsa di studio.

Questo è anche il racconto di un pallone, che rotola via dagli altri ma sembra invece incollato al piede di quella ragazzina li. Quell’abilità che già a quattordici anni riempie la tua casa di adulti, che ti vogliono nella loro squadra.

È la tua voce dall’altra parte dell’oceano, quel suono che all’improvviso s’interrompe, come se avesse perso il suo ritmo quando chiedo: “com’è camminare nel mezzo del proprio sogno, cos’hai pensato quando suonava l’inno nazionale”.

Non sai che è una domanda che ho già fatto, in una vita che non sembra sia accaduta a me. C’era sempre una maglia azzurra indossata, un campo pieno di riflettori e una donna che realizzava un sogno che hanno in tanti che diventa realtà solo per pochi.

“Sembra che suoni solo per me. All’improvviso, in quell’istante tutto ha avuto un senso. I sacrifici fatti, anche quelli a cui sono stata costretta. Alle rinunce, a tutto quel lavoro che non si vede ma che è intrecciato in tutti i giorni dell’anno”.

Le lacrime dentro agli occhi, la felicità dentro al cuore. È la stessa risposta di allora, ha solo un suono diverso, la cadenza delle parole però batte come allora al ritmo del cuore. Prendiamo tutti e due una pausa.

Quegli istanti di silenzio non sono vuoti. Si riempiono d’immagini di una bimba lontana da casa, quella che nelle difficoltà anche materiali ha deciso di resistere, di continuare ad inseguire il sogno di giocare da professionista con quel pallone.

“La responsabilità della maglia, di qualcosa che ho sognato e per il quale voglio continua a lottare, perché questo è solo un inizio”.

Se c’è una parola, una sola, che porto via ad ogni chiacchierata con Gaby è: “consapevolezza”. Nel non voler essere solo un giocatore, non restare confinata in uno stereotipo. Consapevolezza in un percorso difficile, che l’ha portata fino a quel momento nel quale l’inno di Mameli, sembrava suonasse solo per lei.

“La notte prima della partita, volevo addormentarmi subito, perché così arrivava subito il giorno dopo”. In una frase m’ha ricordato che dentro a questa piccola donna cresciuta veramente in fretta, c’è ancora la bambina con il suo sogno.

Perché se c’è qualcosa che non dovrebbe mai andare perso è il coraggio incosciente dei bimbi. Quello che t’ha fatto resistere quando gli altri si sono arresi. Lo stesso che t’ha condotto li, su quel campo, con quelle note che sembrano suonare solo per te.

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