Caffè Corretto – Sipario e Vos, también, Pasman

Arrivano gli scatti ai coriandoli e alle coppe. Quando immaginate che una stagione sia appena terminata, la successiva è già partita, da mesi. Red Auerbach, l’uomo per il quale s’è accostata per la prima volta la parola “Dinastia” ad uno sport, viene citato così nel libro Winning Team: “Sarai felice con quel trofeo in mano, forse per un minuto, poi c’è la nuova stagione.”

Le foto delle premiazioni mi mettono la stessa tristezza di quelle dei matrimoni. Tutti si fanno ritrarre con gli sposi anche se l’hanno incrociati per sbaglio anni prima, se li conoscono semplicemente di vista. La coppa la baciano tanti, così tanti che è facile confondere gli attori dagli uditori.

Quelle scene mi ricordano sempre la frase: “la vittoria ha tanti padri e la sconfitta è orfana”. Una genitorialità così diffusa che alla fine potrebbe accadere di perdere di vista gli architetti di una vittoria. Immancabili arrivano anche quelli che vi racconteranno quello che avete visto. Sono come quelli che vi indicano un gelato alla fragola, senza avere davvero idea della provenienza degli ingredienti.

Gli stessi che cercano di spiegare l’albo d’oro, quello che recita un solo nome, ogni anno. Non ci sono postille, spiegazioni, errata corrige o asterischi, come nel baseball. C’è il nome di chi ha vinto, di chi ha avuto ragione. Non sotto i coriandoli, con il senno del poi ma mesi fa.

Le dinastie, si costruiscono con le idee, il denaro e l’onesta intellettuale. Le vittorie possono anche richiedere uno solo dei due elementi, per durare, perdurare e proseguire nella vincere, sono indispensabili tutte e tre. L’onesta intellettuale è quella che ti fa mimare un gesto, in tribuna, riconoscendo l’errore a favore degli avversari. Quella che ti fa perseguire una idea tecnica e tattica.

Costruire una squadra è guardare una scatola di mattoncini colorati e vedere una nave, una casa o una macchina. È stare bassi sulla balaustra ad osservare da una diversa angolazione il campo. È occuparsi di qualcosa, invece di preoccuparsi. Vincere è il sottoprodotto delle proprie idee. Vincere è vedere quello che altri non vedono.

Il futsal è quello sport, nel quale due soggetti a caso posso argomentare per qualche minuto sul triplete giusto, sbagliato, dritto o al contrario. Perché manca una coppa internazionale, perché in fondo non è il calcio. Anche se dovrebbe esserlo questo futsal, se vuole uscire dal recinto del calcetto nel quale continuano a confinarlo.

In molti vogliono uno sport “famoso” senza le controindicazioni. Volete curare le emorroidi, senza il fastidio di mettervi una crema dove non batte il sole. Facile, troppo facile.
Il futsal rivendica una dirittura morale, che non ha. La racconta, la sbandiera ma ad ogni passo assomiglia al suo fratello maggiore, il calcio. Perché potete nascondere la polvere sotto il tappeto, ma solo per un po’.

È giusto così. Come lo sono i cori ostili dagli spalti avversari. Mi piacciono? No.
Li approvo, no. Ma ho partecipato, in una curva bianco e azzurra, a cori molto simili, perché sfogavano una frustrazione. Ne vado fiero, no: “Ci vuole raffinatezza Ventola”.

Vos, También, Pasman.
Mentre in autostrada superavo un colonna di camion di un circo, mi raccontavano la storia dietro a quella frase. S’applica anche a me, non perché sia un Pasman anche perché in questa disciplina non c’è un Maradona. Vale per tutte le volte che ho pensato, senza scrivere, per tutte le bugie alle quali ho fatto finta di credere.
Il silenzio mi ha reso complice anche quando mi chiedo perché debba essere la mia voce e non la vostra, la tua a raccontare quello che accade.

“Vincere mi rende un bastardo infelice”.
Mi congedo così, ancora con una citazione di Auerbach.
Perché vincere non riempie nessun vuoto, non colma nemmeno una bacheca ammesso che se ne abbia una. Fissavo gli screen dei 50k sul tubo, dei 34 su tiktok, dei 27 su IG. Potevo flexarli, meglio di così, ma poi? Vincere non è un numero, non è una quantità. È l’idea, replicabile. È avere ragione, quando tutti pensavano che tu avessi torto.

Vincere è guardare a quello che manca nell’instante immediatamente successivo al successo. È essere Keyser Söze mentre tutti gli altri pensano che tu sia “Verbal” Kint. Forse è anche vedere mia sorella al palazzetto, l’ultima volta allo stadio insieme guardavamo in panchina l’unico profeta sul quale siamo d’accordo. Vincere è essere infelici costantemente ma cercare di competere, ugualmente.

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