Le partenze, quelle che ti ritrovi allo stesso bar, prima di partire, del “ci vediamo dopo” perché quel dopo, ora è tutto quello che conta. Adesso che è tutto ancora possibile e puoi ancora scegliere, il futuro che vorresti.
Questa è la domenica d’estate, la prima con le macchine in divieto di sosta sotto casa e davanti al cancello. Quella degli occasionali del mare. Li odio gli occasionali, quelli dei sentimenti, delle parole, della vita spesa per sbaglio.
La tristezza me la porto dentro, provo a nasconderla ma scappa sempre fuori. Perché lo so che ho perso, eppure sono ancora in campo, a giocare un pallone che pesa ad ogni tocco, un dolore ad ogni istante. Allora come s’affronta una sfida che nessuno creda possa vincere.
Quel passo dentro al campo, perché posso solo andare incontro al destino. Nonostante la paura, quella che abbiano tutti anche quella d’essere felici. Tutto quello che accadrà lo porteremo al bar, dove si raccontano le storie, dove s’incrociano i destini.
Un viaggio fatto di un lungo silenzio, di quelli che sembrano una sfida, a chi cede per primo e compone una frase, anzi la vocalizza. La guida m’impegna nei frangenti nei quali non penso a cosa scrivere, alle storie fatte di come e perchè. Così la strada scivola via.
I silenzi sono sempre rancorosi, carichi di parole per le quali non si possiede abbastanza coraggio. Di veleno che cola dalle pareti dei ricordi. Di sguardi malvagi che fissano e quelli codardi che svicolano. Una manciata di chilometri alla volta, verso l’inevitabile sipario finale.
Tra due suoni di sirena, c’è la partita. Quella che basta un “play” e la potete rivedere. Quella dentro ad un palazzetto rumoroso, caldo come possono esserlo solo le strutture al chiuso ad inizio giugno. C’è un tempo per la giacca di Dudu (Morgado) sulle spalle, che è così breve da incastrarsi tra due battiti di ciglia.
Un tempo per le camminate silenziose di Massimiliano (Neri) lungo la linea laterale, con un invisibile peso a gravargli sulle spalle. Per qualcuno li, in campo, oggi non è un giorno come gli altri. Non lo sarà mai più. Perché l’eco dei dolori della vita, non li dissipa nessuna vittoria sportiva, li rende più lievi, almeno per un po’.
I minuti iniziali di una finale sono i peggiori, perché ti tremano le gambe, i pensieri e le certezze. Ti trovi lì perché l’hai voluto con tutta te stessa ma per qualche lungo momento, vorresti essere lontana da li, il più possibile. Quella sensazione d’essere ad eguale distanza tra la felicità e la disperazione, ti tiene incollata alla partita. È il carburante della tua voglia di vincere.
Le partite sono anche intessute di durezza, di scontri al limite, di pubblico scomposto e di quello educatissimo. Sequenza d’episodi di uno sport che non è diverso dagli altri, non sugli spalti e nemmeno sul campo. Lo puoi riconoscere, basta guardare, davvero.
Al fischio finale, c’è chi festeggia, chi salta di gioia, chi salta sul carro, chi esulta senza motivo apparente tranne quello d’essere seduto più vicino al campo di altri spettatori. C’è chi vuol spiegare cosa hanno sbagliato gli altri, scevri dell’obbligo di dover dimostrare mai le loro tesi.
Chi osserva quello che ha costruito e poi difeso. C’è chi non si fa le foto con la coppa e chi se le fa anche con la coppa gelato. Ci sono le lacrime, quelle non mancano mai. Arrivano anche quelli che festeggiano a prescindere, volete che manchino le cavallette?
“Che ci fai qui? Quelli che stanno festeggiando sono di là”. È la voce di Eva. Suona quasi come un rimprovero, sempre meglio degli insulti di altri in Coppa Italia. Riesco a rispondere: “m’hai mai visto in mezzo ai festeggiamenti?”.
Quel gradone, tra visi lunghi e occhi pieni di lacrime, non è il posto giusto. È l’unico nel quale però, riesco a non sentirmi fuori posto, fuori da. Dal quale riconosco le emozioni. Posso ascoltarne l’odore e osservare quello che realmente sono le donne, dentro a quelle divise da gioco.
Il singhiozzare di Ludovica. Quanta inconsolabile disperazione sportiva c’entra dentro un corpo così minuto. Un dolore profondo sul quale rimbalzano le parole, perché nessuno riesce a farci male, quanto noi stessi. Siamo la nostra peggiore punizione.
Trascorre lentissimo quel momento, quello nel quale la sconfitta ti si infila nel cuore per non andare mai via, lo conosco posso riconoscerlo e raccontarlo. Eva, hai ragione. Potrei essere ovunque ma non saprei raccontare quello che accade. “Sorry girl, I really am. For being too close to your sorrow.”
C’è un abbraccio, di quelli che portano fuori da un tunnel fatto di notti lunghe, di dolori familiari, di quelli fisici. T’ho vista saltare, saltare in braccio, sorridere felice, finalmente per un po’. Come a mettere un punto ad una storia lunga, che parte da una bimba su un motorino scassato ed arriva fino a qui. Con più cicatrici di quelle che vorresti raccontare ma un cuore abbastanza grande per avere ancora spazio per amare.
“Andiamo”. La strada verso casa è un viaggio negli anni novanta, quelli che Marco vorrebbe aver vissuto e gli darei i miei, volentieri. Quando credevamo di poter fare tutto e poi c’hanno sfilato il tappeto da sotto ai piedi.
La strada corre scura sotto le ruote, luci lontane come il casello.
Come la racconto questa storia? Quella appena passata ed è già remota. Quella di cui mi chiederanno domani al bar, quella che tutti vorrebbero diversa da quella che state leggendo. Prendendo a prestito le voci, gli occhi, il cuore di quelli che si sono fermati per qualche istante, lì.
Il cicalino del telepass, quello d’uscita. Ora è davvero tempo per il sipario, per la stanchezza, per il rammarico e per quelli davvero coraggiosi, per nuovi sogni. Au revoir.