L’imprescindibile coda in autostrada, verso una finale scudetto. Inizia così il viaggio, lentissimo verso gara 2. Marco sonnecchia, s’è anche portato gli occhiali da sole, a mimetizzare meglio le pennichelle. Per svegliarlo devo spostare la conversazione sui vinili.
S’accende come una lampada a fluorescenza, piano piano e poi fa luce che non si riesce più a fermarlo. Va bene così. C’è una vita nascosta in mezzo ai suoi silenzi e al fatto che odia che gli si chieda di lui.
Le finali sono palazzetti addobbati a festa, visi familiari e volti sconosciuti, mischiati insieme. Sono punteggiate di conversazioni frenetiche, nelle quali cerchi di condensare i mesi di distanza. Per essere poi interrotti da qualcuno, che viene a salutare, ancora.
È collegare voci a volti e volti a voci. È anche ignorare scientemente. Non ricordarsi mai come si chiama il panino delle tipe fuori dal palazzetto ed è anche scoprire che le birre sono finite, troppo presto.
Questa finale è Marco che scatta in piedi sul tre a tre. Perché: “la fede non si sceglie, sono i colori giusti, hanno il delfino”. È un bimbo di undici anni, sugli spalti dell’Adriatico. I suoi ricordi, che sono anche i miei, ci raccontano. Sono le sciarpe, il bianco e azzurro. È il Profeta, quello giusto.
Ho cercato di comprendere, la sua di fede sportiva. Ogni possibile svolta della conversazione termina in una piccola piazza, scritto su quell’asfalto immaginario capeggiava: “la fede non si sceglie”. Perché m’ha spiegato: “da un amore umano, puoi anche fuggire, rifuggire e svicolare, ma da quello sportivo, non si può.”
Questa finale è anche una frase che diventa surreale, perché espressa in un contesto unico come quello del calcio a 5 femminile. Le parole hanno il suono di una voce di donna e mi ritrovo a scusarmi per l’espressione sorpresa in viso.
Ci sono anche tanti abbracci. Quelli che accompagnano la voce di Giulia che le vorrebbe ancora giocare, sempre partite così. Perché disegnano la donna che sei, ti raccontano come nient’altro può fare. Ci sono anche gli abbracci mancati e rimandati.
Le adoro le partite senza appello. Sempre piene di “se”, d’incroci verso improbabili destinazioni. A quello che accade in campo, manca sempre qualcosa per essere altro. Ma non è altro. È imparare a vivere con l’ineluttabilità degli eventi che non puoi più cambiare. Con quell’errore con il quale dovrai imparare a vivere, perché non andrà via, mai.
Come un rigore a Pasadena.