Shulha e la questione Ucraina

Qualche giorno fa, Anna Shulha, veterana della nazionale femminile ucraina di futsal, ha rilasciato una lunga intervista. L’atleta in forza al Melilla, nel campionato spagnolo, ha condiviso il suo pensiero su quello che è un momento, non sono sportivo, unico per lei e le sue connazionali.

Sebbene l’atleta mostri un certo risentimento verso la gestione sportiva e le scelte tecniche di una nazionale in procinto di affrontare la fase finale dell’Europeo, Shulha chiarisce anche il suo pensiero su una questione, certamente più importante.

Prima d’approdare nella penisola iberica, Anna Shulha ha giocato in un club russo. Inevitabile quindi, la domanda sui suoi rapporti con le sue ex compagne. Quella d’indossare la maglia del Лагуни-УОР è una decisione di cui s’è pentita anche se avvenuta prima, dell’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina.

Aggiunge che sebbene nelle primi giorni di conflitto abbia ricevuto messaggi da alcune sue ex compagne di squadra russe, da allora: “le nostre strade si sono separate per sempre” e aggiunge un gelido: “per me la Russia ha smesso di esistere”.

C’è tuttavia un enorme elefante che aleggia in qualsiasi conversazione intorno alla nazionale femminile ucraina di futsal: Anna Sidorenko. Ucraina, giocatrice della nazionale, ha scelto di restare in Russia.

“Non capisco come una persona che ha indossato la maglia della nazionale ucraina possa restare in un paese che uccide la nostra gente, stupra bambini e donne, distrugge le nostre città e comportarsi come nulla fosse”. Il j’accuse di Shulha è duro, come i cadaveri che giacciono sulle strade di Mariupol.

“Per me quella persona è un traditore. Spero che per persone così le strade dello sport ucraino siano chiuse per sempre”.

Ho fissato a lungo quest’ultima affermazione. La traduzione automatica in italiano di questa intervista è atroce, ho adottato quella inglese, rileggendola un paio di volte. Non sono stupito per la dichiarazione, legittimata dalla stretta relazione che sport e politica hanno sempre avuto.

Non dal coraggio dell’atleta, seppure raro in un ambiente che promuove e premia la viltà e i vili. Com’è che il coraggio di prendere posizione è arrivato da una donna? Perché?

Il coraggio di ricordare che lo sport fa politica, almeno dalle Olimpiadi di Berlino nel 1938. Quando la Germania nazista consegnava la medaglia d’oro a Jessie Owens nei 100 metri piani. Nero, razza inferiore.

Ad ogni boicottaggio delle olimpiadi, lo sport è stato politica. Ricordate il pugno guantato al cielo di Città del Messico nel 1968, quella è politica. Gli atleti cubani forzosamente dilettanti, i tabelloni creati ad hoc per evitare imbarazzi politici.

L’elenco dei mutamenti politici di cui lo sport è stato volano è lungo, così come quello di cui è stato vittima. In questo tempo di guerra, si contano le vittime, anche quelle figurative.

Non deve però perire anche il coraggio. Quello delle idee, degli ideali. Si può anche non essere banali, si può non essere vili, basta provarci. Anna Shulha ha mostrato che si può.

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