Mi chiama così mio fratello

Il bar non porta ricordi, ma tutti i ricordi portano inevitabilmente al bar.
Tra i tavoli, nel mezzo del rumore delle tazzine e le mamme che vociano di qualcosa che non capiscono.

Ci siamo trovati qui, la prima volta, con fuori le nuvole e la pioggia. Le mascherine ancora in viso. Cercavo di dare un colore alle sue parole, un suono ai suoi silenzi. Lei, dall’altra parte del tavolo, non sorrideva quasi mai.

C’ho provato ad usare il suo nome, ma troppo spesso i ricordi, come le vite, s’aggrappano come edera ai nomi. Li coprono e non vedi più la persona, ma solo quell’unico colore che odora di dolore.

Volevo conoscere la sua storia. Le ho chiesto di cambiare nome, m’ha detto: “puoi chiamarmi come fa mio fratello”. Ho annuito e lei forse a quasi sorriso.

Abbiamo attraversato così, giorni troppo brutti per essere veri, pieni di palloni che invece che in rete finiscono con il colpire le porte dei bagni. Di troppi pensieri e di ricordi, proprio quelli che ti portano inevitabilmente al bar.

Una di quelle storie che non si vedono, della quale ci si dimentica facilmente. Perché per troppi, le vite che se non s’incastrano in uno stereotipo, non esistono. Di quelli che preferiscono l’apparenza, alle superfici ruvide e per questo sbagliate.

Perché con la scorza ruvida capita di tagliarsi, di farsi anche male. Nel tempo però s’impara anche a incastrare il cuore in mezzo a tutti quegli angoli. Lei è una emote sulla chat di Instagram. Sempre la stessa, senza mai chiedersi il “perché”.

I regali sono così, s’accettano senza cercare un significato diverso da quello che sono: gentilezza. Ma solo ringraziato, semplicemente. Allora ecco, è il mio turno di dire grazie a te. Perché ero venuto senza una storia da raccontare, con l’idea d’assistere a qualcosa dal finale scontato.

Un po’ come quando guardi un film sulla passione di Cristo, lo sai che alla fine resuscita. Invece eccola là, questa storia tutta storia, sbagliata e inaspettata. Alla fine poi resuscita eh, lo so.

Ho cercato di capire. Non sono bene a cosa ho assistito. Gli abbracci alla fine sembravano più quelli di chi è appena scampato ad una scossa di terremoto. S’abbraccia perché nonostante la casa si sia sbriciolata, loro sono ancora vivi.

Sugli spalti, c’era quell’incredulità mista a felicità. Come quando tiri fuori quel vestito che non metti da troppo tempo e dentro una tasca trovi 100 euro.

Questa mattina, anche il “nostro bar”, era diverso. Erano tutti senza voce, perché ad essere il “Pescara” non è una cosa che passa inosservata. Perché: “ma sanno davvero giocare”.

Per un giorno, fosse solo questo, questa storia non è importante solo per noi. C’è chi prende un giorno libero, per venire a vederti. Se ti stai chiedendo perché, questa volta conosco la risposta.

Perché vogliono essere voi. Perché se sbagliate, sfigate e senza speranza, riuscite anche a vincere solo una volta, allora quella speranza e quella gioia s’allarga anche a loro.

Non è lo sport o la disciplina. Quello è solo un mezzo. Sei tu, siete voi. Le vostre cicatrici sulle ginocchia. È quel orgoglio di portare i lividi: “per salvarti il culo”.

“I think I’ve seen this film before and I didn’t like the ending”.
La citazione pop alla fine. Con in testa però quell’idea che forse hanno ragione i ragazzi che hanno scritto “Winning Time”, la storia della dinastia del Lakers. Vincere è una cosa che non succede, se sei felice.

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