Il venerdì sera è il tempo dell’aperitivo, d’estate.
Quello dei pantaloncini corti, anche quelli degli altri.
Che ci faccio qui? Forse per questa storia che la squadra femminile di calcio a cinque locale, si chiama Pescara. Sarà che l’avversario è la Lazio. Forse perché mio padre è un “occasionale biancoceleste”.
La voce dello speaker del palazzetto, è quella con la cadenza dello stadio. In qualche modo è “giusta”, cioè m’aspetto quella, quando s’arriva in vista campo. Meno deejay, più “è arrivato l’arrotino”.
Sugli spalti compare anche il “Roscio”, conoscenza storica degli spalti dell’Adriatico, il Giovanni Cornacchia come è scritto, ufficialmente. L’alchimia di combinazioni, tra colori raggruppa intorno agli eventi personaggi quasi leggendari, per la piazza calcistica.
Arriva anche Marco, con il suo carico di colpevole apostasia. Per indicare come Profeta, l’allenatore boemo Zeman. Colpevole tra l’altro, d’aver allenato la Lazio. Marco finge non sia mai accaduto. Da qualche mese non ci vediamo, dalla buca che m’ha rifilato per la Final Eight. S’è trasformato in una versione più giovane del fratello attore. Seriamente attore, recitava in una delle più recenti puntate di Don Matteo.
Sul campo la partita è uno scontro, molto fisico. Che Marco fatica a vedere nonostante gli occhiali, chiaro che necessita, nonostante i suoi vent’anni, di una visita oftalmologica.
C’è una voce, sembra una sirena di quelle delle navi da pesca. Solitamente, quello stridere continuo arriva dal campo. Ora echeggia dagli spalti.
Quel suono appartiene ad un viso. Sulle sue gambe le ferite di una vita spesa dentro ad un campo che le ha tolto più di quello che potrà mai restituirle. Un giorno spero, racconterà senza pensare troppo, di quelle cicatrici, dei dubbi e della fatica.
L’abbraccio dei bambini della scuola calcio, la corsa verso gli spalti, nei quali s’assiepano appassionati che conosci per nome. Un gol non basta. È tutto così attaccato da sembrare incollato, come i corpi, come i volti.
Al netto delle luci che si spengono, degli aficionados sugli spalti. Dei soliti noti, ai quali avrei preferito i soliti sospetti. Lo spettacolo è di quelli incerti, come sanno esserlo solo gli incontri nei quali, non puoi sbagliare.
Il risultato sul campo manda tutti a gara tre, tra una settimana. Quando a Silenti Hill, le giovani promesse del futsal abbasseranno drasticamente l’età media del luogo.
“Si però devi stare, calma”. Vado via, verso la macchia. Con incastrata tra i pensieri, questa frase. Pronunciata con la calma di una voce che ti spiega che c’è lei lì, che l’avete già vissuta questa situazione e lei sa esattamente cosa fare.
Più del gol. Quello realizzato, saltando il portiere, quello che non ricordi davvero. Perché del Cigno Nero s’accorgono tutti, dopo.
Giro la chiave, s’accende il lettore mp3, molto “Old School”. Si è una citazione cinematografica, come sempre.
La voce di Jason Bay.
“So come on, let it go. Just let it be. Why don’t you be you and I’ll be me?”
“Everything that’s broke. Leave it to the breeze”.
Anche le cicatrici, le paure, i ricordi.