Ci sono posti che puoi spiegare solo con il cuore

“Perché giochi?”
“Perché mi diverto”
“Ma se tutte le volte che vengo a guardarti giocare, sei incazzata”
“Perché m’incazzo a perdere così”

Ogni tanto chiedo a Francesca, perché gioca in serie c, campionato regionale abruzzese. Una domanda che ha lo stesso suono di altre parole, come quando chiedi: “perché mi vuoi bene?”

Converso volentieri con lei e con il “segretario” poi trasformatosi in autista, perché loro non hanno mia provato a rifilarmi un luogo comune. Non hanno nemmeno tentato di parlare in “calcettese”.

Nessuna frase di circostanza. Anche in quelle occasioni, nelle quali sarebbe stato scontato utilizzarla. Semplicemente loro. Tra pensieri scombussolati da una vita che spesso lascia a seccare al sole anche il cuore.

Oggi, qui alla fine dell’agonismo, forse Francesca potrebbe rivolgermi, la stessa domanda. Che ci faccio al Pala Senna di Montesilvano, all’ora del pisolino? In una di quelle strutture sportive che fanno sollevarle un sopracciglio, anche agli indigeni. Gli stessi che aggiungono subito: “ma dov’è il Pala Senna?”

La partita inizia. Realizzo presto, che la mia presenza qui, non ha nulla a che fare con la qualità del gioco. Piuttosto con gli strani legami emotivi, così simili a quelli che connettono questo gruppo a questa disciplina.

Forse è più facile apprendere di questa realtà, da qui. Attaccato alla panchina, letteralmente sulla linea laterale. Vicino a quella balaustra di plastica che il mister usa come fragoroso richiamo sonoro.

Sul fondo del calcio a 5 italiano femminile, si trova un posto dove scopro restano altro che le emozioni. Nel mezzo del quale, non ricordo i nomi dei giocatori, ma finisce che m’importa. Così quando la mamma dei bimbi con la Nintendo Switch e Animal Crossing, piazzata sulla linea di porta avversaria buca il gol del vantaggio che poteva dire A2, ho un sussulto.

Uno al cuore. No, non mi può importare così tanto. Forse sono qui, non solo per comprendere le ragioni del loro amore per il futsal, ma per trovare anche le mie.

Mi volto verso la panchina, c’è Federica con le mani sulle ginocchia, sfinita. Manicure coloratissima e impeccabile come sempre. “Ce la fai?”, “Come sempre.” In quelle parole trovo il suo coraggio, che non le ho visto applicare quasi mai, lontano da questo parquet.

Dietro di lei, c’è questa donnina, seduta in panchina. Ha lo sguardo sempre accigliato, non sorride mai, non durante le partite. Una seriosità che corre parallela a quella di chi ha un compito in classe difficile e non è sicuro di sapere tutto, ma proprio tutto.

C’ho messo una stagione a scoprire che è una Ines Fernandes, se non altro solo per la pratica medica. Ma quanti dottori ha questo sport al femminile nelle sue fila?

Non sanno nemmeno chi è il Ines Fernandes, il capitano del Benfica e della nazionale portoghese. Confesso ora, la mia passione sportiva smisurata per questa donna, tipo quella per Fernando “El Niño” Torres. Altrettanto inspiegabile.

In questo mondo diverso, quasi a parte, animato da relazioni, motivazioni così lontane dalla mera essenza sportiva, ho cercato qualcosa, trovando qualcosa. Un gomitolo di lana, filato a caso, intrecciato come se l’avesse fatto ruzzolare in giro un micetto.

Una matassa, che per sbrogliarla e comprenderla, forse s’impiega davvero una vita. Oppure qualche volta, anche solo questa volta, non è davvero importante capire con il cervello, basta prenderla e metterla a riparo tra i ricordi, vicino al cuore.

A

Forse ci vediamo la prossima stagione, forse no. Grazie a tutte. Non ricordo i vostri nomi, ma i vostri occhi si. Grazie perché non siete altro che voi stesse e già così per amarvi è un macello. Qualsiasi cosa diventerete, quella che avete vissuto è una stagione di fede assoluta, una nella quale vi siete gettate nonostante i dubbi, le incertezze. Perché avevate fiducia l’una nell’altra.

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