Le voci, quelle degli appassionati del futsal, viaggiano ad una frequenza diversa. Spesso si confondono, tra il brusio di fondo e roboanti luoghi comuni. Capita qualche volta di prestare le mie, ai pensieri di chi, viaggia silenzioso e quasi invisibile lungo i confini del futsal. Uomini di frontiera.
Le ho raccolte, così.
Una squadra cambia forma se la osservi più da vicino. Gli elementi acquistano nitidezza, le parole t’arrivano più forte alle orecchie. Intorno al rettangolo di gioco, non riesco a guardare, mi limito a vedere. Perdo così quei dettagli che diventano più importanti man mano che m’avvicino.
Capita così, che come un gatto di Schrödinger, per qualche ora possa essere allo stesso tempo, parte della squadra e fuori dalla squadra. Lo Statte, che seguo spesso dagli spalti, è stato più vicino a me, letteralmente. Proprio lì però, t’accorgi della fatica, quella fisica, quella vera.
Nella mente avevo già il lungo ritorno a casa, nella sua percorrenza temporale più che in quella fisica.
Con quella sensazione che allontanarsi dalle emozioni sia un viaggio che non posso misurare in chilometri. L’ho dimenticato per qualche istante, perso in questo mondo che corre parallelo al mio, dagli spalti.
Mi sono tirato in disparte, ad osservare. Nel tentativo di comprendere come riescono a metabolizzare una sconfitta.
Il vociare della sala giochi vicina, l’odore di fritto male e ripetutamente che arriva da dietro il bancone. Le luci e i colori, tutto che si mischia con questo momento di vita, che tutti ignorano, tranne i protagonisti.
Nel ventre del palazzetto, pieno di lustrini ma per altri, ho atteso. Nell’aria umida della sera che diventa notte fonda.
Ero lì, cercando con lo sguardo un’emozione. Una, una parola non detta, un gesto. Ho incrociato lo sguardo di Matilde, la prima a venire fuori dal corridoio. Il suo borsone stracolmo, di qualcosa che è meglio ignorare. Così diverso da quello degli uomini con i quali ho diviso lo spogliatoio.
Abbiamo incrociato lo sguardo per scuotere, all’unisono la testa. “Così, no”. Le parole senza suoni, quelle che scopri quanto rumore fanno, proprio quando non le pronunci. Sei così vicino a chi è stato sconfitto, che l’avverto anche sulla mia di pelle quel sapore acre che ha un risultato avverso.
Perché chi non vuol vedere vincere gli “underdog”, perché l’impresa era li, ad un passo, ad una manciata di granelli di una clessidra pietosa e d’un tabellone che invece non lo è. Quando vincono quelli sfavoriti, quelli che non dovevano esserci, ci sentiamo un po’ tutti partecipi di una vittoria che potrebbe appartenere anche a noi.
“Ci fermiamo al Mc prima ti ripartire, ti dispiace?”
Ecco come mi sono ritrovato qui, in un posto così simile a tanti altri, ma oggi così unico.
Le ore che non bastano mai. Per ascoltare tutto, comprendere qualcosa, guardare per ricordare. Com’è essere andati così vicino ad un sogno sportivo ed averlo visto volare via? Com’è guardare altri alzare una coppa che hai solo sfiorato.
C’è una fila lunga, nonostante l’ora tarda. La “famiglia” in rossoblù e impegnata a raccogliere le ordinazioni e cerca di farmi sentire meno estraneo, meno alieno. Valentina dopo aver pianto in campo, ha riacquistato quella tranquillità di chi non ha nulla da rimproverarsi.
Con l’orgoglio e la fierezza del grandi giocatori riflette ad alta voce: “sul quel tiro io c’ero”, vorrei aggiungere: “come c’eri su tutti gli altri.” Mi ritrovo seduto davanti a Roberta. Persa nei suoi pensieri. Provo a chiederle: “Sarà difficile sciogliere, quelle treccine, l’icona di queste Finals?”
In risposta uno sguardo che si ferma a metà tra il silenzio di chi è lontano da qui e di un “ma che vuoi?!”
Addento il mio panino, dovrebbe avere il sapore del pollo, quello fritto tanto. Ha invece l’amaro sapore della sconfitta.
Grazie, per i ricordi.