Notte di sogni, di coppe e di campioni

Ventiquattrore, dopo. Con le parole di Antonello Venditti, quindi della AS Roma. Strano per me, davvero. Tempo trascorso anche a mettere una distanza fisica, dalle emozioni. Tempo guadagnato, lontano da e poi tristemente vicino a.

Il futsal ti segue, anche quando corri veloce, lontano. Con i suoi suoni, quelli d’un palazzetto pieno di spettatori, con qualche tifoso a riscaldare l’atmosfera. Non importa come, ma solo quando. Questa è la Final Eight, dei decimi di secondo, dell’ultimo respiro.

Tempo di “buzz beater” come lo chiamo nel basket, del tiro sulla sirena. Nella pallacanestro è straordinaria normalità, nel calcio a 5 è gioiosa sorpresa. Suono che accompagna, da colonna sonora: giubilo e disperazione. Delusione e sollievo. Tempo per i battiti del cuore, brevi e molto intensi.
Un tempo nel quale la fortuna non esiste, perché non esiste mai.

Esistono eventi poco probabili, ma se tiri 30 volte in porta e prendi venti pali, non è colpa della sfortuna, ma del tuo piede. La sfortuna, come la fortuna e la NON spiegazione a quello che ci accade intorno. È per coloro che non cercano soluzioni, ma scuse.

Come ripete ormai da anni, Massimiliano “Acciughina” Allegri: “Se dentro al gabbione vincono sempre gli stessi, ci sarà un perché. Perché sono i migliori”. Quelli capaci di trovare la soluzione giusta, fino all’ultimo secondo. Se le coppe le alzano sempre gli stessi giocatori, non è fortuna.

In mezzo alla festa, agli orpelli, alle emozioni che t’avvolgono e ti coinvolgono, si perde spesso la prospettiva del tempo. Ci si ritrova bloccati in un presente, privo di passato e inconsapevole del futuro. Eppure proprio quando splendono le stelle e piovono i lustrini, si ha l’obbligo di pensare al futuro.

Quello di una competizione under 19, popolata da troppi stop di piatto, di progressioni e strappi in velocità, dominata dall’atletismo e non dalla tecnica. Arrivano dalle scuole calcio, non da quelle di futsal. Quando un compagno di squadra di Trezeguet, mi racconta che ha impiegato due anni a capire come muoversi in un quaranta per venti, penso a quanto possa impiegare questa ragazzina a diventare un vero giocatore.

Le interessa poi davvero? Oppure vuole semplicemente giocare, con le sue compagne, in attesa che arrivi la chiamata della Juventus Femminile, per giocare una semifinale di Champions League (vera) contro il Barcellona o il Lione.

Loro sono il futuro d’un movimento al femminile, piegato sul presente, guidato da una fattore emotivo che focalizza l’attenzione al risultato non alla sua programmazione. Queste piccole donne che giocano rotte, piagate e con a roster il numero minimo di giocatori, meritano di più.

Quando il futsal italiano premia la migliore giocatrice della under 19, ricordiamoci che non disputa nemmeno un campionato nazionale senior. Le furie rosse, ne schierano due titolari, contro il Brasile.
Perché c’è sempre un obiettivo da raggiungere ed è quello di battere le più forti.

Dalla terra dei campioni d’Europa al femminile, mi mostrano, in video, un bimbo di dieci anni. Salta l’avversario con la stessa giocata di Ricardinho nel loro torneo nazionale under 10. Uno dei tecnici della nazionale spagnola, commenta così quel video: “c’è ancora speranza per noi”. Se gli spagnoli, cercano la speranza in un giovane giocatore, l’Italia verso che destino si dirige?

Queste donne, meritano una programmazione reale, che qualcuno derubrica con un “ci danno una mano”. Altrimenti affogano nella triste realtà di questo movimento. la sua mancanza di conoscenza. Di se stesso, di quello che accade intorno. Tutti poi a sorprendersi che a certi giocatori, importi più una coppa, che una partita contro il Padova.

Quelli che cercano il bel gioco, quelli che non saprebbero riconoscerlo nemmeno se gli arrivasse dritto in faccia. Sono gli stessi Incapaci, di percepire la differenza tra Roger “Verbal” Kint e Keyser Söze. Come tanti detective Kujan si crogiolano dietro a storie scritte e poi ripetute. Di quelle che non ti fanno paura, perché ti raccontano quello che vuoi ascoltare. Destinati a fare la fine dell’ungherese, ustionato e morente che però urla ancora dal terrore, il nome di Keyser Söze.

Accade mentre crediamo di veder giocare in campionato, tutte, le migliori giocatrici a disposizione. No, semplicemente sono solo quelle disposte a venire, a lasciare ad esempio la Spagna o il Portogallo. Le migliori, sono ancora lì, in quel pezzo di penisola che somiglia così tanto alla nostra.
A dominare. Da diciottenni e titolari, il Brasile. Nella Serie A italiana, per indossare una casacca, si mettono in panchina due portieri che somigliano più a quelli degli alberghi.

Abbiamo tecnici che confondo le loro abilità tecniche con quelle dei propri giocatori, quelli che confondono l’attitudine allo sport femminile con quella dei maschi. Ci sono quelli che si confondono e basta. Infine abbiamo gli esteti, quelli del bel gioco, che non hanno mai vinto nulla e ci sarà una spiegazione, anche per questo.

Ho controllato sugli almanacchi prima, sul regolamento poi. Non esistono premi per il bel gioco, non si assegnano punti, né tantomeno gol. Però forse a chi vince, vogliamo sempre trovare un difetto, solo che ci fermiamo a quello più evidente, che è poi quello clamorosamente meno importante.

Lo facciamo, perché se chi ci batte ha un difetto, possiamo scegliere di non migliorare. D’appellarci al caso, agli eventi. A qualsiasi cosa, tranne la nostra responsabilità. Velasco non accetta dai giocatori che si parli di altri e non di se stessi. Potrebbe essere un punto di partenza. Cos’è che t’ha impedito di vincere?
Questa forse è la domanda più importante.

Arrivare in cima, costa fatica. Spesso ci fermiamo, sul ciglio della nostra strada, anche quella sportiva per imprecare al fato, verso una divinità. Perché la distanza è tanta, perché abbiamo paura di fallire, per giustificare una sconfitta e per non finire seduti in terra in una stanza buia.

Se giustifichiamo le sconfitte, non impareremo mai a vincere. Quando perdiamo, è anche colpa nostra. Spesso è merito dell’avversario, quasi sempre le due cose insieme. C’è una strada, la spensieratezza del centrale difensivo del Santu Predu, Gloria, alla fine della finale persa: “Non c’era niente da fare, erano più forti, io mi sono divertita”.

Loro, che non sapranno giocare a futsal, qualcuna con la pallamano nel cuore e nella testa, con l’innocenza di chi vive ai margini di questo movimento, sono la migliore espressione di quello che questo futsal potrebbe essere.

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