Coppa Italia 22 – Primo Turno

La strada non la puoi spiegare, la devi percorrere. Anche se poi ogni tanto le scarpe diventano scomode. Come quelle che indossi in campo e con quelle, non ti riesce nemmeno d prendere il muro dietro alla porta.

Viaggio incontro all’alba, la luce aiuta a rendere riconoscibili i luoghi. Così la pausa refill carburante è il primo segnale che la meta è vicina. I palazzetti al mattino sono animali strani. Popolati d’indaffarati addetti ai lavori e di donne che fanno Zumba. Percorse da scale che non portano da nessuna parte e da parti che non portano a nessuna scala.

“Oggi non facciamo gol nemmeno se la porta, la spalanchiamo”.
Adoro stare seduto a meno d’un grido di distanza dalle panchine. Storia di panche, di nuche, di profili, di sorrisi ma non di lacrime, solo di quelle che t’arrivano per la rabbia.

Alla prima, Renata è il profeta che ti conduce alla terra promessa. Quello che t’indica la via e poi scaglia il pallone nella direzione della vittoria. Le sue giocate di classe, lasciate libere sul campo, complicano la vita a qualsiasi avversario. Il Pescara si spegne così, lentamente, come quelle candele consumate troppo e mai sostituite.

Gli abbracci di qualcuno, fanno sempre da sfondo alle sconfitte di altri. Gli sguardi di Eva diventano l’incontrovertibile segno d’impotenza sportiva, di una resa diventata troppo presto rotta. Vanno così certe stagioni, si caricano alla fine di problemi mai risolti, di parole non dette e d’errori.

Festeggiano le trecce di Roberta, meno la fascetta bianca di Matilde, che riesce a farsi male nel riscaldamento e la sua borsa del ghiaccio leopardata è il complemento fashion, ad un pomeriggio che tarda ad arrivare.
 

Quando smette d’essere importante vincere, lo sport competitivo diventa hobby. Diventa passatempo, alternativa alla realtà personale, alle sue dissonanze. Perde ogni valenza che non sia quella semplicemente ricreativa. Così finisce che al bar sotto la pineta i vecchi che giocano a briscola sono più competitivi di voi.

Sugli spalti c’è uno dei regali più belli di questa Final Eight, l’abbraccio di Araceli. Tutto il resto dello spazio si ristringe e ci sono solo questi due sedili in tutto il mondo.
Il pomeriggio passa lentamente, dopo l’amara trasferta del Bitonto. Tra partite decise presto, indecisioni generiche e quelli già rassegnati.

Il Granzette travolto dalla Lazio. Con il destino già scritto, le venete provano a contenere una furia biancoceleste che non ha un confine preciso. È come un onda, ti travolte, ti soffoca e quando ti lascia dei momenti per respirare, sono sempre, dannatamente brevi.

In prima serata, dagli spalti del PalaDolmen si può assistere alla più classica delle tragedie greche. Contraddistinta da eventi dolorosi, da un finale di morte, che mette in luce, I disagi della società e dell’uomo che la compone.

Non c’è nulla di biblico, nessun Davide contro Golia. Solo sport, nessuna pugna, nessun missile all’incrocio, anzi forse a voler essere eccessivamente pignoli, qualche gesto di troppo. Il più scontato degli incontri alla vigilia, diventa l’occasione per scambiarsi occhiate e messaggi.

Ventiquattro secondi da una Cinderella Story, ma nulla, c’è sempre una matrigna cattiva. Final “qualcosa” evoca sempre il grande torneo NCAA, quello di basket che non sarebbe tale senza qualche “upset”, qualche sorpresa.

Passano i soliti sospetti, a parte il Pescara, che non usciva ai quarti da tempo immemore. ma tanto alla fine resta abbastanza chiara l’identità di Kaiser Soze.

La notte s’è già avviata da un po’, qui c’è un tavolino sul balcone, vista mare che alla fine sembra di stare a casa anche se qui non conosco la password del WIFI.  Questa storia di mare mi fa venire in mente una roba quasi indie, forse perché c’è di mezzo Calcutta, una roba sul mare.

Non è vero, so esattamente di quale canzone parlo, perché ricordo le parole, e quelle che rappresentano forse meglio questo primo turno di Coppa Italia, sono proprio: “questa sera non mi trucco che sto anche meglio”. Già quel trucco che nasconde.

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