Ricordo ancora la faccia sorpresa di quel testimone di Geova, che mi sentì rispondere alla domanda: “sei contro la guerra?”, un laconico: “No”. Sedici anni sono pochi per avere tante idee, molti per averne già alcune.
Una scuola esclusiva, il mondo visto in lungo e in largo. Una vita passata in mezzo a uomini e donne in divisa. C’è una normalità diversa quando “andare in missione” è una sorta di business di famiglia.
Quando CNN e Al – Jazeera sono gli unici due canali che si ascoltano in casa, quando il pensiero “ma Skype parte all’avvio?” è il primo. Si scherza anche sul macabro, perché funziona così.
Dopo Islamabad, Kabul, Mogadiscio, c’è chi sceglie di parlare e chi di mettere “boots on the ground”. La vita di chi ha amici nelle forze speciali, nelle unità di pronto impiego è così, fatta di propositi come: “devo imparare il russo”, al quale in un recente passato ha fatto eco: “devo imparare il farsi”.
Questo è uno spazio digitale occupato solitamente dallo sport, nel quale capita d’utilizzare un gergo preso a prestito dalla guerra, dai conflitti. Oggi no. Perché almeno oggi, per un giorno non mi va di far finta di niente. Di non sapere, perché s’urta la sensibilità di qualche “emo” sopravvissuto all’estinzione.
Ho pensato a Yulia, conosciuta alla Montesilvano Futsal Cup. Il capitano di quella nazionale giovanile ucraina con il sogno di diventare mamma, sposa e di giocare a calcio. Ora lo fa negli Stati Uniti In un college Division One.
Quella stessa ragazza che raccontava di come sul quella spiaggia che si vede dalla mia finestra, s’accalcavano intorno a lei frotte di indigeni adolescenti e ovviamente brufolosi.
Oggi ha la preoccupazione della sua famiglia, dei colpi d’artiglieria ad interrompere le parole al telefono, della sirena dell’allarme antiaereo.
Come quello dell’allarme per l’attacco dei mortai, del: “scusa fratè è suonato l’allarme, ci sentiamo dopo” . Dopo è quando t’arriva sul telefono la foto del bicchiere di vino lasciato al bar, per dire “tutto bene”.
Perché la normalità è un lusso, la libertà di scrivere le scemenze, anche le mie, la difendono uomini e donne con un fucile, in cima a quei muri che ancora dividono il mondo. È la “realpolitik”, che per oltre settant’anni abbiamo finta non esistesse.
Potrei raccontarvi della terza Supercoppa di Spagna, consecutiva, del Burela femminile. Dell’ennesimo trofeo collezionato da uno Sporting Lisbona maschile impegnato in una marcia trionfale che sembra inarrestabile.
Riesco però. solo a realizzare che ci sono tremila ottocento uomini in partenza, sono 3800 momenti in cui si preparano i borsoni per partire verso una zona di guerra. Sono migliaia di sorrisi forzati, in cui prendi conoscenza che il lavoro dei tuoi cari e banalmente andare in un posto dove l’unico suono che senti è il crepitare delle armi automatiche.
C’ho provato, a far finta di niente. Come per i giocatori che arrivano e spariscono, quelli che spariscono e basta. Le imbarcate, i finti amici e tutto il corredo di normalità sportiva che pervade i professionisti quanto i dilettanti. In tutti gli sport, anche quelli che pensano di essere “migliori”.
Spesso manca il tempo e la voglia, di spiegare l’esistenza di quelle donne e uomini che combattono per proteggere quella coperta di libertà sotto la quale tutti dormiamo, senza chiederci mai come venga garantita.
Quando risponderete ad una chiamata, nel cuore della notte nella quale l’unico suono per i primi trenta secondi è il crepitare di un AK allora, forse, avrete una vaga idea di cos’è la guerra. Quando sarete costretti a scherzare con un “dai sono ancora lontani”, forse potrete rompere il silenzio.
Un dramma che non avete mai nemmeno sfiorato, ha distrutto per sempre le esistenza di donne e uomini come voi. A loro dovete almeno il silenzio, il rispetto. Perché hanno dovuto imbracciare un fucile, per difendere un diritto che voi date per scontato: quello di esistere.