La partita di cartello, la semifinale da seguire per provare a comprendere quali sono i rapporti di forza tra le grandi potenze di questa disciplina.
Spagna versus Portogallo. Gli iberici accreditati del favore del pronostico alla vigilia, contro la sfrontatezza dei lusitani. I campioni del mondo e d’Europa uscenti, tentano di entrare nella storia. Per compiere l’impresa di vincere “back to back”, ogni competizione alla quale hanno partecipato.
In palio c’è il dominio continentale, già sancito a livello di club, dallo Sporting Lisbona. Gli spagnoli partono forte, bucano Andrè Sousa dopo solo diciassette secondi. Chiedo: “questo non è quello forte”, riferendomi al portiere del Portogallo. “No, è uno sgabello”, riesco così a distinguerlo dalla sedia piazzata in porta dai lusitani al mondiale.
Dodici minuti dopo, la Spagna raddoppia. I portoghesi riescono al massimo a colpire i pali, non è nemmeno facile beccare sistematicamente i montanti della porta.
Sembrano avere ragione quelli, che dall’italico stivale affermano che il campionato portoghese non sia di livello perché ci sono solo due squadre, Benfica e Sporting Lisbona a dominarlo. Peccato che una delle due sia anche due volte campione d’Europa, consecutivamente. Come poi se in altri campionati, molto più vicini a loro, non vinca sempre la stessa squadra.
Questo Portogallo ha qualcosa non nei piedi, ma nella testa. La vede anche l’ottimo telecronista di UEFA.tv. L’arroganza sportiva dei campioni. Di quelli che indossano la corona dei vincenti e ne riescono anche a sopportare il peso.
La partita è un susseguirsi quasi nervoso di strappi violenti. Contrasti al limite delle arti marziali miste, ripartenze, profondità del gioco e tiri in porta. Tanti e tutti nello spazio difeso dal portiere. Per sperare in una respinta corta, mi spiega ancora la voce, fuori dal monitor e dentro le mie cuffie.
Questo è anche uno scontro generazionale, il “New Kids on the Block” portoghesi contro gli affermati spagnoli. Di filosofie di gioco, di strutture di sviluppo della disciplina. Questa è ancora la partita di questo ragazzo ventenne, che provoca con un suo errore il raddoppio spagnolo e poi va a vincere la partita, da solo. Letteralmente.
Zicky non è apparso dal nulla, non è un inciampo casuale. È la pepita frutto d’un sistema che ha setacciato una base di praticanti istruita nel corso di dieci lunghi anni.
A dividere il campo e la gloria di questa straordinaria semifinale di futsal europeo c’è Pany Varela. Solo qualche anno fa giocava a calcetto, nei tornei amatoriali. L’anello di congiunzione, fatto di talento, tra due sport, differenti eppure simili.
Il Portogallo insegue la Spagna per trentuno (31) minuti. Senza uscire mentalmente mai dalla partita. “Suck it up”, dicono gli anglosassoni, per indicare quell’abilità agonistica di soffrire per restare aggrappati all’incontro.
Quando quel ragazzino con la maglia numero sei del Portogallo trova la sua doppietta personale e il gol del sorpasso a 1.40 dal termine, penso: “Giusto, così”. È il premio per chi ha un ventenne in campo e non per abbassare l’età media. A chi affida la maglia numero 10 a Bruno Coelho e a lui lascia il rigore che riapre la partita, alla faccia del nepotismo.
Lo striscione “Hollanda” con i colori del Portogallo che capeggia sulle tribune fa da sfondo a questa impresa sportiva, realmente condivisa, della quale i tifosi sono veramente orgogliosi e partecipi. Perché quella si, è una differenza culturale che li distacca dalla marmaglia rumorosa che si agita ai margini, di molte imprese delle nazionali. Gli affilatori di coltelli.
Sarà quindi Russia – Portogallo, la finale di questa competizione, ma non pensate ai figli di Putin, come a delle vittime sacrificali. Perché sarà al contrario, proprio il Portogallo a dover attraversare l’ostacolo post sovietico se vuole confermarsi sul podio più alto.
Così prescindere dal risultato finale, ci sarà una terza nazionale ad aver vinto per due volte il titolo di Campione d’Europa. Farà compagnia a Spagna e Italia, già l’Italia.