Da obiettivo Quarti a quarti nel girone

Quando si perde, si spiega. Adagio immortale, diffusissimo nello sport. Chi vince festeggia, chi perde spiega. Accade ovunque, a qualsiasi latitudine, in sport molto noti e anche in quelli che lo sono meno.

Le scomode realtà. Delle partite delle varie nazionali, non importa la disciplina, non interessa nulla ai proprietari dei club. Sono una fastidiosa ricorrenza, un ulteriore ostacolo alla vittoria e al prestigio personale. Giocatori che s’infortunano, ingaggi di atleti che aumentano in virtù di successi che non hanno nessuna ricaduta a vantaggio di chi finanzia davvero la disciplina.

Le competizioni per nazionali, sono l’occasione per un gruppo di dirigenti che usufruisce di talento addestrato e valorizzato da altri per pavoneggiarsi in caso di vittoria, per scaricare responsabilità su altri in caso di sconfitta.

Una sconfitta è sempre occasione per regolare vecchi conti, per urlare: “io l’avevo detto”, per proporre regole draconiane. Per chi aveva perso, politicamente, di tirare la testa fuori e dire il più classico dei: “si stava meglio, quando si stava peggio”. Ci sono quelli poi che immaginano progetti, come se il calcio a 5 avesse a disposizione le risorse umane e finanziarie del calcio.

In quell’arena olandese, tifosi pochi, gufi tanti. Perché ammettiamolo, almeno tra di noi: una debacle dell’Italia genera più discussione e views, di una eventuale vittoria. Si può chiamare a raccolta il popolo dei social, inneggiarsi a capo popolo, aizzare i peggiori istinti.

Nota a margine.
Ogni volta che rivangate sconsolati il “sessanta milioni di ct”, con disprezzo e disdegno, vi ricordo che senza quella gente del calcio non fregherebbe la proverbiale “mazza” a nessuno. Così come accade ora, con il futsal in Italia.

Davanti ad un pubblico diviso a metà tra le sagome di cartone e persone in carne ed ossa, il Kazakistan di Kakà e Douglas Junior batte l’Italia di Bellarte e Merlim. Quattro a uno, il risultato finale, quello che finirà negli almanacchi.

Per navigare EURO 22, senza far figure da scappato di casa, senza perdermi dentro a parole delle quali ignoro il significato, non è sufficiente affidarmi a Google.
Quando si cercano consigli legali è opportuno consultare un legale, non le pagine del motore di ricerca di Mountain View. Vale anche per il futsal.

Ho fatto quello che ormai non fa quasi più nessuno. Ho chiesto a chi ha la competenza per aiutarmi a non confondere lo status dei giocatori naturalizzati, con quello degli oriundi. Mi sono regalato il kit “Italo for Dummies”. Potete farlo anche voi. È sufficiente rivolgersi a una di quelle agenzie che le società italiane continuamente ringraziano nei post social quando acquistano un giocatore dall’estero. Il processo “oriundo for all” è relativamente semplice.

No, in Italia non è possibile naturalizzare con disinvoltura, se fosse così facile per gli atleti agonisti, non avremmo casi di mezzofondisti, saltatori di varia natura, da sempre in Italia ma non in possesso della cittadinanza.

Higuita vi direbbe che: “Il pianto è sempre libero”. Non mi stupisco di leggere di chi si lamenta di regole competitive che esistevano già. La competizione prevede che sia possibile naturalizzare gli atleti, in talune nazioni è più facile, in Italia arduo e improbabile.

Elisa dalla discussione questa condizione regolamentare non resta che il campo. Quel rettangolo blu, di Groningen. Partendo da una dichiarazione d’intenti, dall’obiettivo chiaramente dichiarato alla vigilia. Il Signor Burns però potrebbe ordinare in questo momento: “Smithers, libera i cani”.

Che si sono avventati sulla preda. Comprensibile, umanamente e perfino a livello narrativo.
La fretta di saltare alla gola di fallimento così palese, con tanta attenzione e dedizione dimostra che qualcuno aveva fatto i campiti a casa. Li ho fatti anche io, preso tanti appunti, suggestioni, riflessioni. Segnato nomi, di giocatori. Perché, altro luogo comune abusato: gli assenti hanno sempre ragione.

Li ho buttati. Perché odio ripetere, diventare eco. Oppure peggio, cimentarmi ancora nel mestiere molto diffuso nel calcio a cinque italiano: quello del copywriter. Sebbene possa svolgere quel compito con sufficiente competenza, non è la mia ambizione.

L’Italia aveva come obiettivo dichiarato di questa spedizione i quarti di finale, ad Amsterdam. In campo, non a visitare piazza DAM e il museo Van Gogh.
Da obiettivo quarti ad arrivare quarti nel girone. Dietro a Slovenia e Finlandia. Questo reciterà la pagina Wikipedia della nazionale di futsal. Due pareggi contro squadre che ci sono alle spalle nel ranking FIFA.

Si può argomentare di una sconfitta, senza apparire con un sorriso che sfiora la paresi. Senza tirare fuori vecchi screen conservati per anni. Senza dover per forza affilare la propria ascia e avventarsi sul nemico.

La spedizione olandese aveva come meta la capitale del paese dei tulipani. Non per diletto, per agonismo. Terzo fallimento della nazionale italiana di futsal, eliminati due volte nella fase a gironi del torneo continentale. Non qualificati al mondiale, come intermezzo.

Ai fatti non c’è bisogno d’aggiungere altro. Soprattutto non c’è bisogno di mentire. Con quelle piccole bugie bianche composte da verità dalle quali s’elidono gli avvenimenti più scomodi per chi li espone.

Potrei ribadire, come hanno già fatto altri, che la selezione scesa in campo, ha dimostrato che esiste una distanza agonistica e tecnica molto profonda dal campionato del Kuwait e quello europeo. Dal dopolavoro dei figlie degli emiri, a trovarsi di fronte Douglas Junior.

Quando però s’inneggia al protezionismo, alle frontiere chiuse. Un ritornello tipico in Italia dopo ogni debacle della nazionale almeno fino alla sentenza Bosman. Nessuno però che mi spieghi l’esistenza di Orazov. Perché a condannarci con due reti è un uomo delle steppe, cresciuto nell’ombra di giocatori importati con intelligenza. Almaty non è Rio, eppure oggi è una delle capitali del futsal.

Kakà batte per la prima volta l’Italia, solo perché quando ci buttavano fuori ancora ai quarti di un Europeo, c’era Cacau sulla panchina dei kazaki. Otto anni dopo loro sono ancora tra le migliori squadre al mondo. L’Italia non riesce nemmeno a stampare una maglietta con il nome giusto per De Oliveira.

Federazione Italiana Giuoco Calcio, che affida con contratto annuale, il compito di selezionare i giocatori che indosseranno la maglia azzurra. Chi lo fa, rivendica tempo per un progetto. Tempo che chiede ora, nell’immediatezza di una sconfitta che mostra i limiti di una rosa di giocatori per la quale nessuno sembra disposto ad assumere la paternità.

Rivendicare per la governance più controllo sulle sorti della Nazionale Italiana di futsal, è solo l’artificio per altro banale, con il quale poi chi propone tale soluzione possa in futuro attaccare chi governa una disciplina, per risultati sui quali non ha effettivamente nessun controllo.

La nazionale con gli zoccoli olandesi ai piedi, si ritrova quindi orfana. Si scopre profondamente da rinnovare, bisognosa di tempo, di un processo e non di risultati. Solo qualche giorno fa, anche alla vigilia dell’ultimo incontro si ribadiva che questa era una squadra che poteva giocarsela con il Kazakistan.

Colpa di un copywriting del futsal, spaventato dall’idea di raccontare la verità. Una macchina promozionale che per sua natura non può raccontare i fatti. Non è possibile pubblicizzare un detersivo per i piatti con lo slogan: “gli altri detersivi puliscono meglio, ma voi amateci anche quando non puliamo bene”.

In quale momento è avvenuta la repentina trasformazione da squadra competitiva a squadra da rifondare? Azzardo una ipotesi. Potrebbe essere accaduto quando con una suolata Orazov ha mandato al bar la difesa dell’Italia per poi scagliare il pallone in rete.

Dal possiamo farcela, al possono farcela. Sembra solo un cambio di tempo, in realtà è un mutamento di sentimento. Dal campionato più competitivo, all’ultima risorsa per giocatori di futsal vicini alla pensione. Non lo diciamo però, perché urterebbe la sensibilità, di tanti.

Una squadra ringiovanita, questa Giovine Italia che solo qualche ora prima era Max Italia. Ringiovanita con l’artificio d’aggregare alla spedizione un ragazzo di diciotto anni. Sperando che nessuno si prenda il disturbo di consultare le date di nascita di alcuni dei protagonisti di questa Italia.

Sciocchi i portoghesi a credere che di avere una nazionale giovane. Capace di far giocare titolari: Zicky di anni 20, Afonso Jusus 24, Erik 26, Andrè Coelho 28. I protagonisti anche della squadra che solo qualche mese fa s’è laureata Campione del Mondo.

Non c’è carro dei vincitori sul quale saltare. In un futsal nel quale non perde mai nessuno, c’è difficoltà ad analizzare una sconfitta attraverso una analisi che non preveda un regolamento di conti. Capace d’andare oltre uno sterile: “ai miei tempi, quando si vinceva”.

Non esistono più quei tempi. Continua a sopravvivere la dietrologia, la miopia dirigenziale e l’inossidabile abitudine dello storytelling “calcettese”: se non si parla di qualcosa, non è mai accaduta.

In un mondo che festeggia quarti posti, sesti posti, che inventa palloni d’oro e anche dopo imbarcate clamorose, vede una crescita della squadra, non possiamo stupirci di una indecente incapacità di accettare la critica. Perché chi critica, è un “rosicone”.

Non c’è mai un confronto d’idee. Solo il livore di chi parla per avere ragione, non per ascoltare le ragioni. Non c’è mai l’onestà di concedere la sconfitta. La decenza d’ammettere che non si è all’altezza, che c’è da lavorare. Non manca mai il talento, è solo una questione di fortuna. Non esiste la fortuna, è il rifugio dei perdenti.

Ci si affida sempre ad un profeta, un messia che dall’alto con il potere del suo eloquio, muti l’acqua in vino. M’accontenterei se restituisse la vista ai ciechi. Non si cercano costruttori, quelli disposti a lavorare nel fango, a sporcarsi con le critiche.

S’ingaggiano copywriter che realizzino una velina per compiacere il nostro ego. Per trasformare quel pareggio, quasi in una vittoria. Quella sconfitta in un momento di crescita, non importa se è la quattordicesima di fila.

Derubricare tutte le voci fuori dal coro adorante, come polemiche. Non ascoltare che le voci che ci raccontano quanto siamo bravi, perfetti e vincenti. Questo è il futsal, oggi. Costretto nei suoi confini da chi pur di non ammettere la sconfitta, la trasforma in un momento da celebrare.

Di ricette è pieno il mondo, per tutti i gusti. C’è la via portoghese, c’è quella dei passaporti. Il fine ultimo resta la vittoria. Di mezzo c’è sempre il denaro, quello che molti presidenti fingono di non spendere. Quello che hanno il diritto d’investire come meglio credono. Sono soldi loro, non di chi questo sport vuole semplicemente dirigerlo.

La nazionale non è di tutti. È del Club Italia.
Mi restano però domande, alle quali fatico a trovare una risposta.
Perché un presidente, debba investire una somma nel crescere un giovane del vivaio. Quando per una frazione di quel costo, può ingaggiare un giocatore già pronto e addestrato da altri?

Perché un club, deve lavorare a maggior gloria della Nazionale? In che modo l’interesse particolare di una società confluisce in quello di una Federazione nazionale. A meno che queste due identità coincidano.

Da tifoso ho sempre preferito vincere la Coppa dei Campioni, che vincere la Coppa del Mondo, oppure l’Europeo. Sarà che in una ci sono davvero tutti i migliori, senza vincoli geografici o anagrafici e nell’altra, nell’altra tutto il resto.

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