Lunedì di pioggia, usuale d’inverno, quasi di neve che già scende sulle montagne. Traffico tipico del primo giorno della settimana. Tempo per riflettere, prendere appunti e organizzare il flusso d’emozioni, azioni e avvenimenti di questo lungo weekend di sport.
Non posso dimenticare però un tema caro a Leo. Per raccontarne, prendo a prestito delle parole, di qualcuno che sicuramente conosce la materia meglio di me. Dopo aver trattato della pestilenza del “cioccolatino”. Leonardo me ne segnala una nuova, di pandemia lessicale e narrativa. Il pallonetto che diventa un cucchiaio e viceversa.
Il pallonetto e il cucchiaio, sono due gesti completamente differenti. Non esiste il cucchiaino, la sua comparsa occasionale fa sanguinare occhi e orecchie. Dal rigore di Totti a Van Der Saar in poi, si è dibattuto in Italia, circa le differenze tra i due gesti. Fino a risolvere e dirimere definitivamente questa questione.
Esiste una pubblicazione periodica, Lancillotto e Nausica. Rivista scientifica italiana di critica e storia dello sport. Capace di sintetizzare una breve analisi fútbologico-scientifica del famoso gesto. Ricordiamo che il primo a compierlo fu Panenka.
Centrocampista ceco, con quel gesto calciò il rigore decisivo con la Cecoslovacchia. Contro il portiere Sepp Maier, nella finale Germania Ovest-Cecoslovacchia del Campionato europeo di calcio 1976 svoltosi in Jugoslavia.
In inglese il “cucchiaio” si chiama per l’appunto Paneka, se vogliamo Totti è un apologo. Aggiungo che di “cucchiai” se ne contano tanti, la differenza è tutta nel quando lo fai.
“La differenza tra “cucchiaio” e “pallonetto” risiede nella dimensione temporale.
Il “pallonetto” consiste semplicemente nel dare una componente ascensionale alla traiettoria, nell’accompagnare dolcemente il proietto a scavalcare l’ostacolo. Per quanto riguarda i tempi, il pallonetto è puntuale, arriva giusto. Il “cucchiaio” arriva dopo.”
“In virtù dell’effetto a tornare, il pallone percorre il tragitto in un tempo superiore a quello che gli viene assegnato dalla normale percezione dell’osservatore. Infatti, se consideriamo una sfera sottoposta a torsione all’indietro, la quantità di energia ricevuta dovrà essere distribuita tra i due moti, quello del procedere in avanti e quello del ruotare all’indietro.”
“Il pallone, in moto retrogrado, tenderà a rallentare e quasi a fermarsi, come accade anche sul piano del biliardo ad una palla colpita sotto. E così il portiere si tuffa per raccogliere un tiro che arriverà… dopo: quando lui sarà già caduto in terra.
La differenza è fisica e un po’ anche filosofica.”
Spero, per Leo, che non debba più sentire chiamare cucchiaio un dannatissimo pallonetto da metà campo. Non ci spero molto, ma la speranza come nel detto popolare: “è l’ultima a morire”.
Sabato
Al Pala Rigopiano, arriva il Pesaro. Metà della rosa qui è di casa, letteralmente. Per aver giocato nel Pescara, quello prima di questo, proprio con una matricola diversa.
Quando Tommaso Giuliani, diciassette anni, ha preso il posto tra i pali del Pescara, ho sperato.
Che parasse il rigore di Cuzzolino. Non importa quanto esili fossero le possibilità. Quanto la parte razionale del mio cervello considerasse altamente improbabile il verificarsi di quell’evento.
Tommaso, 2004. Entra al posto di Mazzocchetti, il portiere dei biancoazzurri, espulso. Para il rigore all’argentino, pescarese d’adozione. Che magnifica storia, che favola bellissima.
Fischio, dell’arbitro.
Rumore secco di camera d’aria di cuoio percossa con violenza.
Giocatori che esultano. Quelli del Pesaro.
Non sempre le favole hanno un lieto fine. Anzi spesso sono decisamente tragiche. Digressione pop. Esiste in Corea del Sud un intero filone di favole per bambini dark-horror, famosissime. Raccontate in parte nella serie tv, “It’s ok not to be ok”, definita dal New York Times, una delle migliori serie tv del 2020. Guardatela, non vi fa male fare qualcosa di diverso dal guardare “uomini e donne”.
Come in una favola di Nam Ju-ri, il giovanissimo portiere nel tentativo di liberarsi del pallone dopo un retropassaggio, perde il controllo della sfera. Soffiata via da un avversario. Gol, sotto di tre ora. Accade, qualcosa d’importante, dopo.
Tutti, i compagni di squadra. Dai veterani sempre in campo, alle riserve che giocano pochi minuti, lo incoraggiano.
Non con quel paternalistico atteggiamento del “non è successo niente”. È. più quel sano e convincente: “l’abbiamo visto tutti l’errore, ma capita, non dovrebbe ma succede”. C’è una distintiva differenza tra il supporto sincero e quello di circostanza, è nel contatto fisico. Più lungo e intenso è l’abbraccio, più sincera è la partecipazione.
Nessuno vuol restare vicino, essere associato ad un errore. Sportivo o di vita, non fa differenza. Quando scegli di restare in quello spazio, corrotto dal fallimento, più a lungo lo fai, più t’importa. Forse un pezzo di favola c’è, tra le trame di una serata storta. Arriva qualche minuto più tardi.
Fortini lanciato a rete, solo a tu per tu con Giuliani. Siamo al limite dell’area. Il ragazzo con indosso la casacca numero 12 del Pescara, esce sui piedi dell’avversario. Tempismo e gesto atletico impeccabile. Palla bloccata e occasione da gol, sventata.
Una gioia, una sola. A quella ti devi aggrappare, per non affogare nelle emozioni. Fischio finale. Il tabellone segna un risultato implacabile. La corazzata di Fulvio Colini, ne realizza cinque, ne subisce solo uno. Continua la rincorsa dei marchigiani al primo posto, che ora è lontano nove punti. Questo però è un campionato che si decide ai play off, quello che conta è: “la prima in casa”.
Domenica
Al Pala Roma c’è un certo freddo, dentro. C’è Debora ancora sugli spalti, con la sua reflex vicino. Si parla di gatti, inevitabilmente. In campo a scaldarsi arrivano Francavilla e Falconara.
C’è chi palleggia bene anche con il gesso, mentre alcuni non ci riescono nemmeno senza.
Ci sono gli striscioni che non comprendo, nemmeno con l’aiuto da casa. Accade, di non comprendere. Se non si fanno le domande giuste, possibilmente alle persone che conoscono le risposte. La partita scivola via, sempre nella metà campo opposta, almeno nel primo tempo.
Scatto una miseria di foto, perché accade tutto, lontano da me. Fisicamente. A Gorgonzola infatti, la Kick Off è sotto di tre reti, contro il Padova. Per quello che è uno scontro salvezza. Le sandonatesi se ne fanno uno da solo, aiutano a farsi fare il secondo con una giocata che se riesce bene solo allo Sporting Lisbona e al Kairat, ci sarà un perché. Contribuiscono anche al tre a zero per le avversarie, sembra finita.
Invece no. Insistono con il portiere di movimento. Più ordinate, precise. Le ragazze della Kick Off trovano, il piede di Vanelli. Calcia e infila il pallone in quello spazio immediatamente sotto all’incrocio dei pali. Raddoppia sempre lei, con una conclusione che riapre la partita. Il pareggio arriva dai piedi di Greta Ghilardi. Classe 2003, prima stagione di futsal in Serie A. Le arriva la palla mentre è appostata sul palo. L’indirizza su quello lontano. Da quella posizione la porta è così vicina che paradossalmente calciarla sul palo lontano è la scelta più difficile. Perché quel palo è dannatamente vicino.
Pareggiano, sfiorano il 4 a 3 con un pallone ancora di Vanelli, salvato sulla linea. Finisse oggi la stagione, la Kick Off sarebbe salva. La lotta, quella più intensa, sarà quella lì, nel pantano del fondo classifica, dove ti devi sporcare se vuoi salvarti. Dove è meglio abbracciarsi e sorridere, solo alla fine.
Greta Ghilardi è il regalo che non ci meritiamo. Perché c’ha creduto solo Marco Calegari, con il suo progetto folle di schierare due squadre nel campionato under 19 della scorsa stagione. Accademia Calcio Bergamo, ne porta una addirittura in finale di Coppa Italia. I talenti ci sono, li dovete cercare, esattamente come ha fatto lui, nei posti più ovvi ma dove incredibilmente nessuno guarda.
Un fischio, quello di rigore, riporta al luogo presente la mia attenzione. Gol di Vanin. Espulsione di Luciani.
La potrebbero portare a casa, questa vittoria, le ragazze teatine. Difesa ordinata, ripartenze velenose. Si scrive così, vero?
Schurtz si lamenta con l’arbitro che lo rimprovera con un tagliente: “Mister come se non avesse mai giocato”, chapeau.
Giacchette nere, o colorate, anche nel giorno nel quale si ricorda la lotta alla violenza sulle donne vengono apostrofati, come al solito.
La partita la pareggia Marta, imbeccata da una giocata di Janice. Nel timeout successivo l’allenatore del Francavilla, mi regala ancora una frase da trascrivere. “Adesso dobbiamo soffrire, verranno a pressarci, restate calme e se non c’è niente spazzate”. Una delle sue giocatrici, rinforza il concetto: “Non c’è nessuna vergogna a buttare la palla in tribuna”.
Finisce così, uno ad uno. Partita intensa, che vale anche il prezzo del biglietto. Cinque euro sono una birra (una pinta, l’unica dimensione esistente) e forse però la partita, potrebbe farvi più male al cuore e al fegato. Nel prezzo del biglietto, inclusa la possibilità di vincere un monopattino, buttalo via.
Ghiaia, parcheggio, casa. Foto da guardare mentre Mac Jones, dimostra che essere rookie non è una colpa, ma spesso un merito. Il sarrismo affonda sotto i colpi del cinismo delle squadre di Spalletti. Il generale spegne il portatile dopo il primo tempo perché lui è un occasionale della “lazie”.
Seduto in un bar diverso, questa mattina. Se chiedessi agli astanti chi è Greta Ghilardi, nessuno saprebbe rispondermi. Nemmeno se il secondo nome fosse Debora Vanin ed è un peccato. Un maledetto, tristissimo peccato.