Il mondiale di palloncino

Ricordate lo streamer spagnolo, Iban? L’autore dell’intervista esclusiva a Messi, nella pancia del Parco dei Principi. Pochi istanti prima che argentino esordisse, con la maglia del PSG. Quello capace di chiedere al fuoriclasse dell’albiceleste: “è vero che ho mangiato troppo alla tua festa d’addio al Barca?”. La prima domanda, letteralmente.

Iban, collabora con l’agenzia di Gerard Piquè. Il difensore del Barcellona, il marito di Shakira. Lui.
Alcuni mesi fa, i creativi della Kosmos, intercettano un video. Protagonisti, due ragazzi americani. Chiusi in casa durante il primo lockdown, si sono sfidati in salotto, un terzo fungeva da arbitro. La gara consisteva nel non far cadere in terra un palloncino. Tre ragazzi dell’Oregon, prendono un passatempo per bambini e lo trasformano in un fenomeno.

Il video diventa virale, ironia della sorte. Viene raccolto dai media tradizionali. Finisce su ESPN, SI, Bleacher Report. Qualcuno nel gruppo di lavoro di Piquè ha una idea, geniale.
“Impacchettiamo il prodotto, promuoviamolo”.
Nasce così uno dei programmi sportivi di successo, di questa pandemia: il Mondiale di Palloncino.

Da quel salotto sperduto negli Stati Uniti, al palcoscenico planetario. Un mondiale presentato in pompa magna. Accade tutto nel giro di pochi mesi. Com’è stato possibile? Quali sono le lezioni che uno sporti minore, alla ricerca di uno spicchio di notorietà, può apprendere.

Il torneo mondiale, organizzato in un parco divertimenti nei pressi di Barcellona, consisteva di un campo a metà tra il salotto di casa e un palcoscenico. Pareti trasparenti a delimitare uno spazio colmo di spigoli. Trentadue atleti, da tutto il mondo, compresa la Mongolia. I vicini di casa del Kairat. C’era anche il Var.

Ne parla in Italia, Ultimo Uomo. Diventa un fenomeno non per la sua natura, quanto per la sua genesi. Scardina, spero per sempre, quell’idea che lo sport sia spettacolo solo nel suo gesto atletico. Idea di una narrazione sportiva imperniata su tabellini, diagonali, schemi di gioco. È così tanto altro.

Il futsal, ha bisogno di narratori. Non solo di divulgatori, che servono e svolgono un encomiabile compito. Gianni Brera, tra i grandi giornalisti sportivi italiani, non aveva mai indossato un paio di scarpini da pista eppure è stato anche consigliere nazionale della FIDAL (Atletica). Inarrivabile favoleggiatore del calcio all’italiana, aveva giocato al calcio come facciamo tutti, in piccole squadre giovanili, della provincia milanese. A metà degli anni trenta, del secolo scorso.

La disciplina del calcio a cinque ha bisogno di più autori, con il coraggio di dire: “mi rifiuto di dire che questo è lo sport dei ricorsi”. Più storytellers, meno tecnici alla lavagna. A Lele Adani, che s’è costruito una carriera da commentatore sportivo dopo quella da calciatore, viene riconosciuta una cultura tecnica e tattica di altissimo livello. Eppure, tutti, lo ricordano per la  garra charrúa. Per giunta usando quella definizione in maniera incorretta.

Ci ricordiamo dell’emozione, non della diagonale. Ci rimane impresso lo spettacolo che Oitomeia offre in campo, piuttosto che la sua “copertura preventiva”, qualsiasi cosa questo voglia dire. L’eleganza del gesto ha una poetica sua, che s’innalza a livelli altissimi se è cresciuta in mezzo alle crepe dell’asfalto di un villa argentina malfamata.

Quando tutto è “bellissimo” è inevitabilmente noioso. Una tendenza narrativa questa, che manifesta la completa ignoranza circa la struttura del racconto. Sono tutti eroi nel futsal. Non ci sono gli antieroi, gli antagonisti. Il futsal vive, in un perenne stato di equilibro, per non turbare nessuno. Si chiede poi come mai, anche il gatto della UYBA ha più foto della serie a di futsal.

Gatto di strada, denutrito. Eroe in difficoltà.
Irrompe in campo durante una partita ufficiale. Rottura dell’equilibrio iniziale.
Lo cercano in tutto il palazzetto. Peripezie e mutamenti.
Adottato dalla squadra. Ricomposizione dell’equilibrio iniziale.

Non si tratta di disegnare il prossimo modulo per sbarcare un equipaggio umano sul Marte, oppure di pubblicare uno studio sui traumi cerebrali dovuti alla lunga permanenza nello spazio.
Più semplicemente basta aver letto una qualsiasi favola di Grimm e averne compreso la struttura, basterebbe.

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