Isabela Pereira, la giornalista di guerra

Devi parlare, con Isa. Una frase che mi sono sentito ripetere per almeno due stagioni. Per l’intera fase iniziale della pandemia almeno. In un pigro pomeriggio d’inizio stagione, l’italiano dall’accento inconfondibile di una giocatrice portoghese coglie la mia attenzione.

Parla di Sky Sport, di dirette, ma come spesso accade le ragazze posseggono solo una parte delle informazioni. M’intrometto, con quella che può sembrare una entrata in scivolata, di quelle che prendi quello che capita. Palla, caviglia.

Resta però a fissarsi nella mia memoria questo ricordo. È una di quelle che pensa, anche. Forse chi mi ripete che dovrei parlarle ha ragione. Forse. Passa così qualche giorno, mi faccio dare il numero. Le scrivo.

Isabela, ha un bellissimo nome. Isabella. Stride così tanto con questo abito da Paolo Montero, che le vedo spesso indossare in campo. Ho tantissime domande, l’avverto e probabilmente nessuna ha un diretto collegamento con la sua attività di giocatrice di futsal. Le raccomando: “niente supercazzole da giocatore”.

L’atletica fino a quattordici anni, passione di papà Antonio. In quelle discipline che faccio ora fatica a incollare all’immagine di quel centrale difensivo, che indossa oggi la maglia del Falconara.
Giavellotto, salto in alto, queste le sue discipline. Sua sorella Filipa, invece, ha altri interessi. A quel nome, Filipa, inizio a sospettare che questi appunti possano diventare una storia.

In tutte le storie, quelle che si rispettano c’è quel momento di rottura. Destinato a cambiare il corso di una vita, di un fiume, di una storia. Quando c’è una separazione, si subisce l’inevitabile cambiamento. S’interrompe una quotidianità che davamo per scontata.

Arriva così per Isabela, il calcio. Prima a undici, poi a cinque. L’ascolto elencare le squadre nelle quali ha giocato. Le chiedo di mandarmi l’elenco perché non c’è una reale possibilità che io le possa trascrivere correttamente. È la sua voce però che coglie la mia attenzione.

Fortissimo, come il rumore sordo di una martellata contro il muro, nella sua voce rimbalza l’orgoglio per il suo percorso. Per essersi guadagnata ogni centimetro di quello che ha intorno ora. Aveva vinto la mia attenzione. Il rispetto dovuto a tutte, in particolare a quelle donne che hanno spremuto con il lavoro ogni goccia di talento che gli è toccata in sorte.

L’ascoltavo parlare, sentendomi colpevole per aver associato il giocatore alla donna, aver confuso i piani, non essere stato pronto a chiederle, il perché di quello che vedevo. Il suo aiuto per capire quanto fossero vicine o differenti quelle due parti di se.

All’improvviso a quel puzzle di pezzi di Isabela che avevo davanti, fatto di frammenti di gioco, cerco di aggiungere quelli della sua vita. Il profumo di semplicità, d’un panorama lusitano che assomiglia così tanto a quello che posso ammirare dalla mia finestra. Il mare, la spiaggia. Quelle che ti porti dentro ovunque vai.

Come il suono della carta accartocciata butto via quello che pensavo di sapere. Prendo quel foglio stropicciato ed inizio a scrivere. La storia d’un incontro che doveva avvenire e del tempo che ho perso. Perché ho ascoltato dei cattivi maestri.

Scienze politiche, vuol studiare nella facoltà che frequenta Marco. Nella quale insegna mia sorella. Le piacerebbe diventare giornalista di guerra. A quel punto smetto d’ascoltare, perché ho questa immagine del taxi sul quale viaggia mia sorella coperto dalla polvere dell’esplosione dello Sheraton di Islamabad.
“Non ho salutato mio fratello”.
Il suono di quella voce familiare scompare e riappare quella di Isabela ed è allora che la donnina con indosso il numero sedici diventa più grande di quei quaranta minuti sul parquet.

Arriva in una Italia dominata dalla “Lazio dei Fenomeni”, quella che ha “acquedotto” nel nome. Una nuova scalata verso il vertice dalla A2, fino alla finale scudetto. Quella che perdi, che lasci andare perché qualcuno non ha niente da perdere e viene a prendersi il titolo.

Le ripartenze. Quando guardi dall’altra parte del campo e ti rendi conto che le tue avversarie hanno perso più finali di quelle che tu hai giocato. Il dolore della sconfitta, la sofferenza sportiva di una lezione che non si può imparare in nessun altro modo.

Le donne che piangono, lo chiedo sempre. La sua risposta intreccia investimento emotivo, impegno e dedizione al lavoro. Le chiedo della nazionale. Quella portoghese ha così tanto talento, chi dovrebbe rimanere fuori per farle posto?. M’innamoro del coraggio per la risposta giusta, perché si. Esistono anche quelle sbagliate.

Parliamo di viaggi. L’Australia e questo desiderio di una solitudine anche momentanea. I momenti belli andrebbero condivisi penso. Lei sembra intercettare in qualche modo questa mia domanda. Mi racconta dei suoi viaggi con mamma Monica, con l’orgoglio di chi può restituire finalmente qualcosa. Come Carla, in serie c, sul fondo di questo sport.

Cucire insieme le storie, raccontare che quello che vedete in campo, è una parte residuale di una vita spesa per essere li. Sugli spalti, sulla linea laterale, siamo testimoni di storie di donne e di uomini, che si battono per un successo sportivo. Se le loro storie restano seppellite dalla retorica, scivolano via attraverso le maglie di una narrazione dozzinale. Non sono mai esistite.
Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, non fa rumore.

Quasi due ore dopo, ho capito a cosa servono i minuti illimitati del mio piano telefonico. A non permettere che storie come questa si perdano nel mezzo del rumore di fondo, di uno sport che scimmiotta male, il suo cugino più grande.

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