Che ci fa un ragazzino sulla panchina dell’Argentina? Una domanda possibile, di un probabile spettatore occasionale. Di quelli che non sono interessati a vedere una partita di Serie A. Matías Lucuix, questo è il suo nome. Otto anni fa era l’astro nascente del futsal mondiale.
Vestiva la maglia dell’Inter Movistar, il club più titolato nella storia della Spagna. Era la stella che brillava più luminosa, era il predestinato. In Thailandia nel 2012, Fernando Larrañaga, nonostante i due non siano in sintonia, lo convoca.
Matías Raúl Lucuix è uno dei riferimenti di quella che è una buona squadra. Nonostante la giovane età, è tra i leader dello spogliatoio.
L’otto Novembre 2012, Matìas scende in campo contro l’Australia. La sua nazionale è già qualificata al turno successivo.
Di quella partita i presenti ricorderanno, l’uscita in barella del numero 3 argentino, le lacrime e il silenzio che faceva risuonare più forti le grida.
Il responso medico è terribile, simile a chi è stato vittima di un incidente in moto. Ha subito una frattura scomposta del terzo distale del perone, oltre a una frattura obliqua con un terzo frammento del terzo medio e distale della tibia, e a sua volta una frattura del malleolo tibiale interno.
La prima preoccupazione dello staff medico che lo opera a Madrid e se il ragazzo potrà tornare a camminare. Quando torna in campo, farà anche parte della spedizione argentina che nel 2016 alzerà la coppa del mondo, la sua magia non c’è più. A soli ventisette anni, il suo sogno s’è spezzato. Doveva essere il migliore al mondo, poteva. Quella partita senza senso, quello scontro, ha spezzato la bacchetta con la quale distribuiva magie.
Mandiamo la registrazione, (avevo scritto il nastro, una cosa da boomer) di questa storia, avanti veloce. La fermiamo durante la premiazione della Coppa del Mondo di futsal, in Lituania. Infantino distribuisce le medaglie d’argento, ai secondi classificati. C’è un ragazzo con la tuta, mentre sta per ricevere la medaglia, fa segno di no con il dito. Quel ragazzo è Lucas Tripodi, gioca nell’Inter Movistar.
La stessa squadra di Matìas. Non ha il talento gigantesco che aveva il suo CT, ma sul suo ha costruito un ruolo importante in nazionale e nel suo club. È diventato grande, pensando in grande. Indossa la tuta perché prima del mondiale ha subito una lesione ai legamenti. Il gruppo l’ha voluto lì, a lottare insieme per quel mondiale.
Il CT osserva il suo giocatore, rinunciare alla medaglia. Sono l’uno accanto all’altro. Matìas si sfila la sua medaglia dal collo, prova a metterla al collo di Lucas. Il ragazzo reitera il suo diniego. Quello che insiste e gli mette la medaglia al collo non è solo il suo commissario tecnico. È stato “lui” in un momento lontano, diverso, ancora estremamente doloroso. Quella sofferenza che diventa lacrime. In conferenza stampa, dopo la vittoria con il Brasile.
Non il pugno, il rigore non concesso, i pali, non le polemiche. Nemmeno le parole a caso dei de-pensanti. Quella breve sequenza rappresenta l’inizio e la conclusione di un percorso che rende lo sport lo strumento educativo che può essere.
Questo è un gesto da celebrare, per poter indicare i veri protagonisti. Quelli che solo la sconfitta può rivelare.
Matías Raúl Lucuix è l’eroe che non ci meritiamo ma di cui abbiamo disperatamente bisogno.