Le amichevoli sono quel momento della stagione, talmente inutile che l’unica preoccupazione reale è quella di non farsi male. Di solito non vado, a meno che non ci siano giocatori in campo che non ho mai visto dal vivo. Di certo non mi “sparo” centinaia di chilometri per delle sfide di nessun valore.
“Mauro, sabato facciamo un amichevole, al Pala Rigopiano.”, la voce è quella di Stefano Iachini, Equipment Manager della squadra. In campo ci sarà il Pescara, quello nuovo ma con la matricola dell’Acqua & Sapone e il Pistoia di A2. Sabato pomeriggio, futsal amichevole. Non è una cattiva idea, il derby tra Torino e Juventus è alle 18.00, ho tempo.
C’è un nuovo arrivo in squadra, Edu Villalva. Al secolo Eduardo Villalva, ventisette anni, argentino di Buenos Aires.
Non l’ho mai visto giocare dal vivo, dagli spalti, insomma da vicino. Il palazzetto è a due passi da casa di mia sorella, faccio una specie di tour domenicale prettamente “terrone” e mi vado ad accomodare sui seggiolini.
Mentre il Pescara si riscalda nella sua metà campo, solo tre giocatori biancoazzurri guardano dall’altra parte del campo. Murilo, Gui e Villalva. La macchina fotografica c’è, ma è riposta nella sacca. Non parte nel quintetto iniziale il ragazzo di Villa Martelli e quindi sono abbastanza distratto.
Una manciata di minuti dopo, eccolo entrare in campo. Le leve lunghe, il movimento a tagliare il campo. Va in contro ai compagni per ricevere il passaggio, si sposta sulla linea laterale. Accade in una frazione di secondo. Tunnel all’avversario diretto, via in velocità verso la porta. Il portiere tenta l’uscita per coprire la sua rete, lui lo scavalca con uno scavetto.
La macchina fotografica, nella mia borsa.
Prendo il telefono, cerco il contatto di mio padre e scrivo: “devi venire a vedere questo giocatore”. In questi anni di futsal questa è solo la seconda volta che scrivo a lui un messaggio così. La gioia di guardare il Pescara di Giovanni Galeone, quell’idea che anche se perdi, ti sei divertito. Quella sensazione che stia per succedere qualcosa, sempre. L’inaspettato che diventa attesa. Mancava solo il Borghetti, perché il “roscio” c’è.
“Il roscio” è una figura mitologica della tifoseria pescarese, quella della Curva Nord. Ora in una sorta di pensione anticipata dagli spalti dell’Adriatico (solo gli occasionali si riferiscono allo stadio cittadino come Cornacchia) è un aficionados del futsal. Per me è una sorta di filo conduttore di una vita spesa sugli spalti. Tanto quando era a cavalcioni sulla recinzione della curva quanto ora seduto con gli acciacchi dell’età.
Il tempo scorre sul cronometro, Eduardo Villalva continua ad essere la buona ragione per occupare un seggiolino al palazzetto. Scatta di nuovo sulla banda laterale, questa volta l’avversario prova a spingerlo fuori con una spinta, lui regge e trova con un tiro la porta, la palla però vola appena alta sulla traversa.
Edu lo cerca poi, per ricordagli che no, non si fa. Non quella spinta verso i tabelloni, non in amichevole. Esce dal campo e questa volta si leva gli orecchini, li consegna ad uno degli allenatori. Si sistema meglio sul seggiolino e guarda con attenzione la partita. Chi ha preso i calci nel vecchio campetto del quartiere non si spaventa facilmente ma fa riaffiorare quell’istinto di sopravvivenza primordiale.
Sorrido felice, eccolo è qui. Il ragazzo che alla sua prima partita in nazionale, in Brasile, per saltare Falcao che arrivava a marcarlo decide di fare una bicicletta: “perché era l’unico spazio disponibile, quello alle sue spalle”. Gioca con quell’abbandono che trovate solo nei campetti di periferia, con quella sorte di tristezza che trovate solo nei talenti veri. Se non lo vedete, allora è meglio che restate a casa a guardare un muro spoglio.
Il ragazzo della Villa, cresciuto solo con la sua mamma, in uno di quegli angoli di Buenos Aires che non sono indicati sulle guide turistiche. Un quartiere difficile, nel quale si vive giorno per giorno. Nel quale si gioca anche solo per un panino e una coca cola. Un posto nel quale un ragazzino resta a calciare in porta in un campo sterrato fino a tarda sera. Se la sua mamma non fosse uscito a cercarlo, lui sarebbe rimasto li.
Il rapporto con la famiglia, con il nipote, Rulito e con la sorella. Sono pezzi di un abito cucito addosso a forza di sacrifici, tenuti insieme da un talento così brillante che a volte acceca anche chi lo esprime. Per comprendere l’uomo dentro al giocatore non si può prescindere dal suo percorso. Dai mille lavori fatti, del corso da parrucchiere, da quella smania di essere d’aiuto per quelli che l’avevano aiutato.
Vado via e rifletto sulle parole che Snoop Dogg ha detto una volta: “You can take your boy out the hood but you can’t take the hood out the homie”.
Forse è davvero così. Forse, però, quella è davvero la forza che ti spinge a tentare quello che gli altri pensano sia impossibile, come saltare una divinità del futsal con una bicicletta.
Edu Villalva è una sensazione, un’emozione, nella sua dirompete semplicità. Ci sono giocatori così, che puoi amare solo se li comprendi, senza chiedergli nulla.
Stasera l’Argentina sarà in campo per una finale mondiale, Edu la guarderà da casa. Se questo semplice fatto, non ti suscita una qualche riflessione, una connessione di sentimenti, non ti viene voglia di fare il tifo per lui, allora sei morto. Semplicemente.