È arrivata alla prima giornata. Così per fugare ogni mio dubbio, per rafforzare una idea. La pallonata in faccia, sulla linea laterale della serie c. Un posto più pericoloso della Somalia, con i mortai e gli spritz.
Nel grande caos frattale, quella di beccarmi una pallonata era una circostanza che ritenevo possibile e probabile.
Uno degli anziani che affollano il campo di Via Ugo Foscolo, durante un incontro di terza categoria, dopo che un maldestro rinvio (Agnese) che colpì l’arbitro esclamò un indigenissimo: “quess è la madonn”. Un rimando cristiano alla fatalità degli eventi talvolta ispirati dal divino. Ma non faccio l’arbitro.
Agnese, lei. Autrice oppure la colpevole. Il nome ovviamente l’ho chiesto successivamente. Resta sempre valido il mio proposito di non imparare alcun nome. Già disatteso, ne sono cosciente. Ero in ginocchio, alla ricerca di una prospettiva diversa per alcuni scatti. Se fossi rimasto in piedi, probabilmente il dolore sarebbe stato più forte, con maggior disagio. È un dubbio però, che non voglio fugare.
Malissimo, Agnese. Non tanto per il leggiadro tocco di palla, ma per l’inaudita forza che hai impiegato per calciare la palla, in fallo laterale. Eri già a due passi dalla linea, bastava anche toccarla piano, con la punta dello scarpino. Ovvio che se invece il tuo era un tentativo d’omicidio, allora bene, quasi.
Riavvolgiamo il nastro però.
Questa è una storia piena di mancanze, di nomi uguali dentro a persone diverse. Di fughe in avanti, talvolta anche nei sotterranei. Di borse e borsoni. Da fare, disfatti oppure da riempire. Una storia di reflex stanche, usate male e troppo, che smettono di funzionare, come le storie, come le bugie.
Di sogni, di ricordi, insomma con qualcosa da mettere li, vicino alle scarpe da gioco, alla maglia e al cuore. Il mio. Lo zaino sembra all’apparenza più leggero. Accade così quando si parte da soli. Diretto verso un pallone verde, verso una stagione agonistica che spero non sia la copia di quella che l’ha preceduta.
L’emozione della prima, del silenzio della macchina che si riempie di pensieri senza suoni. Di quella strada piccola nella quale svoltare all’improvviso. Di mille “why”, senza nessun “because” e di quelle lacrime che non tornano indietro nemmeno a ricacciarle a forza.
Le panchine vuote, si riempiono. Alcuni buchi però restano lì, perché sono anche quelli del cuore e allora diventano difficili da colmare. A Federica importa poco quello che scrivo, non ha nemmeno un profilo social. La sua è una sorta d’esistenza, parallela. In un tempo diverso da questo. Solitamente è disattenta al punto da sembrare assente.
Quando m’ha chiesto di trovare posto per i suoi di ricordi, in questo pezzo, ho avuto la stessa reazione di Mazzone che corre sotto la curva dell’Atalanta. Li con il pugno chiuso ad esclamare: “ma come, t’ho dovuto estorcere quasi, anche solo il nome della tua scuola superiore e ora, questo?”
Voleva trovassi posto per quello che le mancava. Per quella voce dalla panchina, la presenza fuori dal campo. L’uomo genuinamente interessato a lei, a loro. Quel suo modo di trovare un punto d’accordo che fosse ovviamente il più vicino alla sua volontà. Una assenza che diventa presenza, perché il ricordo, quello non passa mai.
Dovreste ascoltare, perché lei mi manda i vocali che odio. Sembra faccia fatica ad esprimere il suo cuore e come ascoltare i bimbi parlare dei loro sentimenti. Ti vogliono dire che t’importa, senza farti davvero percepire la profondità. Finiscono, entrambi, con il sortire l’effetto contrario.
Quella che entra in campo è una squadra con due fori nel cuore. Uno in panchina, l’altro tra i pali. Qui dove termina la discesa del futsal, oppure dove inizia la salita, certe ferite, restano aperte. Non si rimarginano mai, alcune volte ti dimentichi del dolore, sorridi anche, ma la cicatrice resta.
Fischio finale. Le foto sono improbabili, troppo gialle o troppo verdi. Nero verdi, i colori del Chieti e la rivalità di campanile. La guerra, gli sfollati, il rifiuto dell’accoglienza. Dalle mie parti è perfino una colpa sportiva essere di Francavilla. Una rivalità eterna e nel mezzo due tifoserie, molto calde.
Le grida dalla panchina, mi mancavano. Non si sentono spesso nelle serie al femminile, sono un segnale di gradito ritorno, alla normalità. Sono l’acustico emblema che a qualcuno importa, molto. Abbastanza da spendere del tempo con voi. Da prendere una pallonata in faccia.
Fischio finale. Quattro a due, una sconfitta. L’arbitro ha sempre qualche colpa, la panchina e sempre troppo corta. Manca sistematicamente il fiato, ci sono i cani che abbiano in un bordocampo che mi ricorda le piste di bocce. C’è gente anche dietro alle panchine.
Mentre torno in macchina, pesto un fico. Il frutto, caduto dall’albero vicino alla macchina. Sorrido appena. In mezzo alla ghiaia nascono anche i fiori bellissimi.