Il play del Giappone femminile è alta? Non ho idea nemmeno se per gli standard cestistici, bastino cento sessantuno centimetri per giocare. Passano pochi istanti di partita, la finale olimpica contro gli Stati Uniti. Ora capisco perché guardo delle donne, giapponesi, giocare a pallacanestro.
Non si tratta di uno spokon, il termine jappo che indica gli anime a carattere sportivo. Non è Attack No 1, Capitan Tsubasa o Suramu Danku ma al femminile. Ho scritto i nomi degli anime in originale, così per non passare per uno che li ha guardati per caso.
Non ho idea del perché, ma vederla giocare m’ha fatto pensare ad Aurora. Avete presente il portiere di una delle under 19 di futsal del Bergamo? Finalista nella Coppa Italia di categoria, semifinalista scudetto, lei. Troppo piccola, troppo minuta, troppo grandi i guanti e insomma tutto “troppo”. Se un giorno però, me la ritrovo a deviare oltre il palo, il rigore decisivo in una finale scudetto?
Sullo schermo Rui Machida, domina e non dovrebbe. Dribbling dietro alla schiena, passaggi a tagliare il campo “no look”, poi penetrazione a canestro. Tutto il repertorio, completo. Come ci riesce, come nasce e si diventa un giocatore come questo?
C’è una storia. La devo conoscere.
Vediamo se il tempo passato in mezzo agli ideogrammi, m’è servito a qualcosa, oltre all’ovvia capacità di giocare agli mmorpg asiatici direttamente nella lingua originale.
Cambio di tastiera, cambio di lingua e sono dall’altra parte del mondo. Giusto un paio di click.
Rui Machida era l’ultima speranza di un padre allenatore di basket di vedere uno dei suoi figli praticare il “suo” sport.
Impegnato da sempre nell’allenare le giovanili scolastiche e del club aziendale, aveva visto il suo figlio maggiore debuttare a livello universitario nel baseball, la prima figlia dominare il campo di pallavolo. Rassegnato ad un destino che non comprendeva, interrogava spesso la sua ultimogenita: “perché non provi il basket”.
L’esempio del fratello però rappresentava una attrazione troppo forte per la giovanissima Rui Machida. Il suo fratellone la trascinava spesso al campo da baseball e sul diamante, lei s’esercitava con un guantone troppo grande. C’era questo amore viscerale per il baseball che cresceva. Un giorno però, uno dei suoi compagni di scuola le propone di partecipare al club di basket, riservato ai bambini delle elementari. Perché no?
Quando torna a casa, corre verso il suo papà e dichiara trionfante: “Voglio giocare a basket”. C’è voluta tutta la capacità persuasiva della sua mamma per impedire che il signor Shinegori corresse verso il più vicino negozio di articoli sportivi per comprare alla sua bimba tutto il necessario. C’era ora la sua erede, quella di suo nonno prima di lui. Un giocatore di basket in casa.
Rui Machida a scuola, è la più piccola del suo gruppo, non gioca tanto. Non demorde, al primo anno di scuole superiori, in molti pensano che giochi perché è la “figlia del coach”. La casa diventa la sua palestra, vuole che suo padre le insegni quello che fanno i ragazzi più grandi di lei, quelli che fanno quelli che giocano al college. Una adolescente destinata al fallimento, biologico. Rui Machida però possiede una coordinazione fuori dal comune. Il tempo passato a giocare a baseball ha rinforzato la sua spalla, i suoi passaggi ad una mano tagliano il campo da basket come se fossero scagliati con entrambe le mani. I cambi di direzione sono così netti da sembrare impossibili da replicare.
In quella abitazione trasformata in palestra, c’è chi dribbla con il pallone da basket le porte scorrevoli, chi utilizza i futon per esercitarsi con la palla curva e vicino al televisore di casa c’è una lavagna “tattica”, perché dopo ogni partita, si cercano gli errori e poi si pratica come eliminarli.
Cento sessantuno centimetri, fossero anche due di più. Non bastano, non dovrebbero bastare. Rui Machida però in campo è un giocatore, vero. MVP della semifinale olimpica, medaglia d’argento, nel quintetto all – star della manifestazione. Campione d’Asia, battendo la Cina. Sei volte campione del Giappone, consecutivi, con il suo club.
Fatevi un regalo, guardatela giocare. Quella coordinazione appartiene a quella sfera di talento generazionale. Non ho idea come c’entri tutta quella abilità in quel poco spazio e forse per questo sprizza da tutti i pori.