Un gol in finale ma non il finale

M’arriva una foto, su telegram. Perché diciamolo pure, solo i boomer sono rimasti su whatsapp.
La frase che segue: “te la ricordi Chiara Pernazza”.
Non in questa vita, penso. Però quel momento, lo ricordo. C’ero. Nel senso fisico del termine, non limitato all’aspetto metafisico del ricordo.

Il Pala Di Vittorio pieno, come nelle grandi occasioni, quando gioca la Ternana. Finale d’andata. Le Ferelle ampiamente favorite, con il trio brasiliano delle meraviglie: Renata, Manieri e Schmitd. Contro c’è la Kick Off Milano, che poi è San Donato Milanese. Lottano le lombarde, anche quelle d’adozione ma non c’è nulla da fare. Uno dei gol delle bianconere, proprio dentro a quel catino bollente, anche per il tetto il lamiera, del Di Vittorio, lo segna una che è nata nella città dei ponti.

Non la noti mai Chiara, a meno che il suo piede non sia li pronto a ribadire in rete una palla vagante. Se sei una brutta persona come me, potresti perfino confonderla con qualcun’altra, oppure semplicemente riporla in un angolo della memoria che non ricordo appunto di possedere. Chiara vive a Ragusa, tipo Ragusa Alta ma non come Bergamo Alta. Mi ricorda in qualche modo Monstar, soli che lì il ponte era uno e l’hanno distrutto a cannonate. Quelli di questo angolo di mondo patrimonio dell’UNESCO l’ha distrutto un terremoto.

Ci sono quei giocatori che chiamiamo predestinati e che poi non arrivano mai, anzi aspettiamo ancora che esplodano oltre la soglia dei trent’anni. Gli concediamo qualsiasi possibilità e invece, lasciamo scivolare nel dimenticatoio quei talenti troppo riservati per vantarsi, troppo educati per essere sfrontati, insomma troppo. Ventiquattro, un passato a giocare nelle Lupe, nella Kick Off, nel Ragusa in A. Giocare, non indossare la casacca in panchina.

M’ascolta parlare le ricordo credo il marito della cugina, che è Abruzzese. Spero sia un complimento e non il suo farmi notare che il mio accento e la mia cadenza si percepiscano così nettamente. Io non le ho fatto notare che il suo di accento mi fa pensare più a Vito Corleone che a Ficarra e Picone.

Voleva giocare playmaker anche se è alta un metro e una Vigorsol, parole sue non mie. Lo so, strano vero? Arriva il calcio, non il volley come la mamma. Gioca con i maschi e poi quando l’età e il regolamento non lo permettono più, passa al regionale, del calcio a 5. In fondo alla catena alimentare del futsal. Non si può scendere più in basso. L’università la porta a nord, Padova. Invece di ammazzarsi di spritz a 3 euro, come ho fatto io quando ero di stanza a Prato della Valle, lei ha studiato e giocato.

Ha voglia di raccontarsi, anche se non faccio in tempo a farle delle domande e si scusa e non ho nemmeno idea del perché lo faccia. C’è questa preoccupazione per il futuro, che non passi solo dai suoi piedi, questa voglia di rendere orgogliosi tutti e poi finisci però per non rendere orgoglioso nessuno. La testa sulle spalle, ben piantata, forse troppo.
“Ho l’impressione di parlare con mia madre che di anni ne ha 74”.
“Me lo dicono in tanti”. Forse abbiamo tutti un po’ ragione.

Ho un problema con la fiducia, che s’è acuito, scavando un solco profondo che il Gran Canyon al confronto è la buca che scavate al mare con i piedi. Il Montalbano argentino mi racconta di lei, ma io chiedo ancora. Ho bisogno di una ex compagna di squadra. “Tipa tranquilla e si può giocare”. Tanto basta, almeno per me.

Scopriamo d’avere in comune uno strano rapporto con il talento, lei con quello che s’è fermato sui suoi piedi. “M’hanno premiata come miglior giocatrice di A2”, il tono di voce è pieno d’orgoglio, come se volesse convincermi che non ha i piedi fatti di ghisa. Chiara, se t’ho chiamato, siamo oltre quel punto. Voglio capire, comprendere.
Com’è scivolato tra le maglie di tanti che si fanno chiamare direttori sportivi, il tuo di talento.

Forse c’entra la tua saudade siciliana, la velocità con la quale le vicende sportive della tua vita si sono dipanate, forse non avevi allora, gli strumenti emotivi che hai oggi. T’ascolto ancora, parlare sempre con quel timore d’usare la parola sbagliata e io allora t’incalzo per non farti riflettere. Ti chiedo perfino se hai un “accollo”, un opossum, un impegno emotivo che sono poi quelli che spengono più carriere delle rotture dei legamenti.

Ripartire, per dimostrare di essere ancora quella che a soli vent’anni pareggiava il conto in una finale scudetto. Sarà perché non è mai troppo tardi per ripartire ma forse questo lo dico più a me che a te, ma se vuoi lo diciamo anche insieme. Perché quel talento è solo tuo, non devi dimostrare nulla a nessuno, puoi farne quello che vuoi.
Resto convinto che sia uno spreco, lasciarlo li, senza mostrarlo ad altri. Ora che sei una donna, hai deciso che puoi crederci più forte, che vuoi farlo, devi. Non perché tu sia in debito con qualcuno. Forse si, un po’ con quelli che non hanno il tuo talento. Se ci credi tu, allora lo faccio anche io e preparo lo spazio sul muro per la tua maglia.
 

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