Entro al PalaRigopiano, maledicendo me stesso. Dovevo controllare dove giocava la Under 13 del Chieti. Ci gioca quella ragazzina con il numero due. Percorro il tragitto che conduce al sottopasso e al campo con quello scoramento tipico di chi è convinto d’aver perso un’occasione.
Capto qualche parola: “Chieti, under”. Vuoi vedere che giocano qui, adesso.
Preparo l’attrezzatura mentre lei è seduta in mezzo ai suoi compagni di squadra. S’è fatto un gran parlare, di razzismo, parità di genere, pride. Tutto in un grande calderone di una discussione sociale così generalista da risultare spesso incomprensibile e più ancora distante dai bisogni della gente. Qualsiasi cosa la “gente” voglia dire.
Ludo, è un giocatore, non una giocatrice. Perché come per gli anglosassoni il lemma “player” non ha genere, così sarà per me. I giocatori che “possono giocare”, insomma quelli particolarmente bravi in inglese si definiscono: “baller”, ancora una volta un termine neutro.
Questa lunga considerazione, che ho trascritto qui è però intrinsecamente incastrata, intessuta nelle fibre del piccolo ometto che avevo seduto accanto in panchina.
Venite con me, vi racconto di una normalità possibile, se solo ascoltassimo davvero questi piccoli uomini e queste piccole donne.
Sistemo il monitor sulla reflex. Subito il mio vicino di seggiolino in panchina si distrare, lo indica al suo compagno e allora decido di farli partecipi. Aggiungo poi: “ora concentratevi sulla partita”.
Sono sotto nel punteggio, qualcuno è scoraggiato, altri motivati, qualcuno semplicemente infastidito.
Ludo, non fa una piega, non una parola, ogni tanto un sorriso abbozzato e questi occhi grandi spalancati. Chissà perché le donne che giocano hanno questi occhi spalancati, forse per meraviglia.
Inizia la rotazione dei cambi, la partita s’allunga nella calura di questa estate esplosa in faccia a tutti.
Il mister si volta e indica il mio vicino di seggiolino. “Dai entra”.
Lui piega le mani quasi in preghiera: “perché io, fai entrare Ludo”. Incredulo, sorpreso la indica come se il suo mister non avesse capito nulla della partita.
“Ludo, fai entrare Ludo”. Due volte il nome, che finisce con la O. Lei poi si chiama Ludovica, indossa il numero due come i giocatori quelli forti, tipo Vanin. E’ solo una ragazzina, può giocare e almeno mentre l’osservavo io forse era davvero il miglior giocatore a disposizione del mister.
Avete presente De Rossi, quando Ventura sullo zero a zero con la Svezia voleva farlo entrare e lui disse “che cazzo c’entro io?” Stessa scena. Dovevano vincere lui non sarebbe stato utile.
Ludo, non è una femmina, è un giocatore. Ludo, è anche Ludovica, ma è un mio compagno di squadra. Badate bene, tutto rigorosamente al maschile. “Ma è una femmina” provo ad argomentare, per provocare il mio giovanissimo interlocutore. Mi guarda come se questa ovvietà fosse del tutto superflua e aggiunge: “è forte”.
In un certo momento della vita quel bimbo, forse cambierà idea, pressato dalla società, dalle condizione sociali, economiche, culturali. Oppure.
Già “oppure”, non la cambierà e insegnerà ad altri che Ludo, è un giocatore e non importa a nessuno se è “femmina” è un mio compagno di squadra. “Gioca con me”, con quel senso di protezione che solo i bimbi riescono ancora ad avere.
Quei recinti nei quali sentiamo la necessità di rinchiudere le cose, le persone, le idee. Non esistono, li costruiamo noi, da adulti.
Grazie bimbi, per la meraviglia.