Nazionale Femminile, se mancasse il talento?

S’è appena concluso il raduno di Novarello, della Nazionale Femminile di Futsal. La pandemia ha rallentato, fino a fermarla, l’attività agonistica delle azzurre del calcio a 5. Tanti i volti nuovi da valutare, alcuni giocatori dalla Serie A2, qualcuna già con esperienza nella massima divisione.
Molti i volti ormai noti, alcune assenze naturali, il ritrovarsi come punto di ripartenza sia emotivo che sportivo.

Scorro la lista delle venti convocate, il pensiero viaggia però veloce ai prossimi appuntamenti continentali. A quelle partite internazionali che non sono amichevoli ma vere e proprie battaglie. In Europa dominano due nazionali femminili, Spagna e Portogallo, rigorosamente in questo ordine. Vincere vuol dire battere loro.

Le iberiche, guidate da Clàudia Pons, nel più recente raduno collegiale, intorno ad alcune veterane: Vanessa Sotelo, Peque, Amelia, Ana Luján, ha dato spazio ad una intera nuova generazione di giocatrici, capaci già di competere al massimo livello.
Poter attingere a piene mani da un bacino di talento così grande, mantiene la Spagna al vertice del movimento femminile.

A livello di squadre nazionali, la competitività agonistica, i risultati sul campo sono principalmente una questione di talento. Sono poche le ore nelle quali è possibile lavorare sugli aspetti tattici, la crescita delle atlete è demandata ai club.
Per questo è improbo il compito di un commissario tecnico, costretto a differenza di un tecnico di serie a, a scegliere tra un numero finito di giocatori.

Ad un commissario tecnico viene chiesto di vincere, non vedo cosa altro dovrebbe fare. Prima di avanzare una richiesta di questo tipo però, andrebbe preso in considerazione il livello tecnico dei giocatori eleggibili per la maglia azzurra.
Per ovviare a questa indiscutibile penuria, la nazionale maschile di futsal si è rivolta ai così detti oriundi. Giocatori naturalizzati disponibili a vestire la magli azzurra. La nazionale di Bellarte né impiega un numero consistente, scegliendo tra i migliori talenti ed ecco che l’Italia riesce a battere la Finlandia. Finalmente.

Quello è un modello replicabile, certo. Non è però la panacea di tutti i mali.
Una intera generazione di giocatrici italiane ha raggiunto l’apice della propria carriera agonistica. Eppure non siamo mai riusciti a battere Spagna e Portogallo. L’elemento principale, il cuneo differenziale tra le lusitane e le azzurre, tra le spagnole e le italiane, resta il talento. Quello che non puoi insegnare, quello che puoi solo scoprire.

Il coraggio di guardarsi allo specchio, per realizzare che quel vuoto tecnico non è colmabile facilmente, che non ci sono ricette magiche, colpi di teatro capaci di colmare un divario che si misura in anni, potrebbe essere un inizio.
Esempi di queste trasformazioni ci sono, tutte intorno a noi, basta alzare lo sguardo e indagare le ragioni, comprendere il problema e cercare una soluzione, senza ricorrere a proclami.

L’Argentina maschile, campione del mondo, è arrivata lì sul tetto del mondo, scegliendo di scontrarsi sistematicamente con i migliori. Sul campo contro il Brasile, ad ogni occasione. Invece di attenderli nella propria metà campo, li hanno aggrediti, pressandoli nella loro metà campo. Sconfitte pesanti all’inizio, ma il timone restava saldo in quella direzione. Sconfitta dopo sconfitta, cambiavano alcuni interpreti, diminuiva la differenza nel punteggio e mutava la mentalità. Duro cambiare l’atteggiamento mentale di una generazione di atleti.
Questa è solo una delle mille ricette possibili.

Immagino però, che sugli spalti, nei corridoi dei palazzi, al bar, ognuno possiede una soluzione definitiva che di solito inizia con la frase: “se io fossi il CT”. No, non volete essere un CT perché scoprireste che il talento non potete compralo al  fruttivendolo sotto casa, non cresce nel vostro giardino, che il Club Italia è curioso come ambiente lavorativo, che ci sono mille equilibri da mantenere e che la catena decisionale è più complessa di quello che credete.

“Se io fossi il CT”, non funziona perché il talento è una questione di formazione, qui in Italia il concetto di conoscenza applicata alla pratica è una chimera, tutti possono fare tutto meglio di altri senza alcun processo di apprendimento fattuale alla base. C’è bisogno di un lavoro di concerto indirizzato alla creazione di una base comune di lavoro tecnica e tattica sugli atleti. Non dimentichiamo che i giocatori arrivano alla maglia azzurra, come momento apicale della loro parabola sportiva.

Lungimiranza, pazienza. Un paio di lemmi che hanno in comune i dittongo finale. Questi però sono anche due concetti, che dovrebbe guidare un intero movimento che ha il compito di scoprire, crescere e valorizzare il talento. Non è un compito del Club Italia. E’ un dovere delle società, tutte.

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