“L’app dice che c’è solo un chilometro di fila, tentiamo la sorte in autostrada”.
Due ore e mezza per percorrere sette chilometri e anche un camion che c’ha impedito di prendere una bottiglietta d’acqua.
Canzone del viaggio. Credit Flavio. Premete play.
Aria condizionata a palla, pinguini a spasso nella macchina e tante cose da raccontare. Risposte che pesano, altre che sono più leggere. Scopro che Marco vorrebbe fare il giornalista d’inchiesta, “tipo Report, non le Iene”, espressione di disgusto segue la precisazione.
Andiamo in direzione ostinata e contraria. Incontro alle bugie, quelle che si racconta chi pensa di stare meglio così, quelle che ci raccontiamo per non finire a far colazione con l’alprazolam. Finalmente vado a trovare Fabio, che è diventato papà. Uno dei primi podcast che ho realizzato si chiamava “un buco a centrocampo”, Fabio era una delle voci. Chissà che il podcast, figlio di una frase memorabile di Giovanni Galeone, non possa tornare.
Storia questa, anche d’amicizie che restano attaccate ad un filo tenue che non si spezza. Cristina, ex pallanuotista di serie a, mi manda una foto con una delle magliette che stampavo per il mio compleanno “I don’t age, i level up”, non la sentivo da eoni. A riempire certi spazi emotivi, arrivano abbracci e parole da ogni dove, ma forse quegli spazi non si riempiono mai.
Falconara è una città di mare. La spiaggia è nascosta però da un lungo muro, che sostiene un terrapieno, sul quale scorre il tracciato ferroviario. Un lungomare fatto di sottopassaggi che se non sai dove sono, non li trovi. Una città in cui le indicazioni sono da e verso la raffineria. Inevitabilmente.
Solaria Beach Club. Insomma lo stabilimento di Fabio. Neo papà, gran difensore centrale nelle categorie minori abruzzesi, ottimi piedi, intelligenza e battuta mercuriale. Arriva lo spritz. Foto polaroid che m’esce sempre scura e forse è arrivato il momento di prenderne una nuova, anche con il flash incorporato. Caldo, di quelli umidi e piuttosto appiccicaticci. Moretti gelata, pizzette e l’orologio che scorre inesorabilmente verso il calcio d’inizio.
Il cronometro segna 14.46, il Montesilvano è sotto di due gol, ha già giocato il portiere di movimento e io ho fatto cinque ore di viaggio per vedere una partita che è già finita. I bookmaker nemmeno le accettavano più le scommesse sul Falconara. Gonzalo, l’allenatore del Montesilvano si prende la sua dose di strali dal pubblico. Questa è una parte importante di questo racconto. Il calcio, il futsal, le bocce non importa lo sport, non importa il sesso di chi lo pratica, è passione. Vai però a sapere che forse quell’uomo li, che è in piedi in camicia bianca, si porta addosso un dolore grande.
Tra le linee narrative, scopro che la perdita è un grosso, spesso, ruvido filo rosso che lega le vite di molti, anche su opposte panchine, fazioni, cuori e menti. I papà hanno l’aurea mitologica che gli costruiamo intorno da bambini, dovrebbero essere immortali e non lo sono, li vorremmo sempre presenti e non lo saranno. L’uomo Gonzalo, su quella panchina a pensare ad una partita, della quale, diciamocelo francamente, importa solo a noi che siamo innamorati del gioco. L’uomo Gonzalo, non sarà il più grande allenatore di futsal, ha mostrato però la stoffa dell’uomo più grande di tanti allenatori.
Segna Taty, il due a zero. Braccia verso il cielo, a salutare chi non c’è più. Chi t’ha lasciato un vuoto, che non sai come colmare, che forse non voi colmare. Un vuoto che non si vede ma s’avverte, che non puoi quantificare se non in lacrime, che non puoi comprendere perché ogni dolore è estremamente personale. Suo il secondo gol, quello che probabilmente chiude questa serie. Penso: “giusto così, ci sta, è una bella storia e le favole…” No, le mie di favole non sono mai a lieto fine.
All’intervallo, bottiglietta d’acqua frizzante che quella liscia è da tristi. Qualche chiacchiera intrecciata per caso. Vedo entrare due carabinieri, penso: “ecco l’unica speranza del Montesilvano, che interrompano la partita”. Ho trovato l’incipit per raccontare la storia di questo Falconara, che solo tre anni fa, veniva ripescato e le partite le vinceva a tavolino. Ecco, adoro queste storie, che partono da lontano, spariscono e poi riaffiorano all’improvviso, come un delfino vicino ad una barca da pesca.
Secondo tempo.
Speriamo finisca presto, se il Falconara ruota la rosa, tiene il pallone in campo è finita. Il Montesilvano ha fuori due dei suoi migliori giocatori e c’è perfino in campo per lunghi tratti Alessia.
All’improvviso prende palla, con la sua andatura scoordinata allunga la falcata, arriva in zona tiro e calcia verso la porta. I suoi piedi credo l’abbiano scolpiti nel basalto. Però come ama ripetere Montella, si l’aeroplanino, per fare gol: “basta colpire la palla nel mezzo, ad andare di lato ci pensa da sola”.
Quando torna verso la sua panchina, fratino indosso si posiziona davanti a me: “Alessia…ma che gol hai fatto?”. Mi guarda serissima: “Hai visto? Oggi vinciamo”. La guardo sorpreso, sarà inebriata per il gol, le hanno prese a pallonate per tutto il primo tempo, vero hai accorciato ma? Ma lei è in campo, io sulla linea laterale, quello che sembra un confine labile e solo apparente, invece delimita un complesso universo d’emozioni.
Una manciata d’istanti più tardi, di destro Aida pareggia. Probabilmente Aida è a conoscenza d’avere un piede destro quando va a comprare le scarpe, quando scende dal letto e nelle occasioni in cui potrebbe dover salire le scale.
Così però non vale, un gol di Alessia, uno di Aida di destro, cos’è ora questa storia?
Quelli che sanno raccontare lo sport direbbero: “è girata la partita”.
Non lo so da che parte s’è girata, quando però Ersilia impatta di sinistro il pallone per correggere in rete il tre a due, capisco anche io che il Montesilvano questa partita può davvero vincerla. Già perché Ersilia con il sinistro cammina, balla, scende e sale dalla macchina e pensate, ci preme anche la frizione. Ma tutto li.
C’è un momento però, lungo, personale e indelebile, che mi s’è stampato nel cuore.
Non volevo venire, per un milione di ragioni che sembravano buone solo se avesse vinto la codardia di altri.
Un respiro alla volta, davanti le idee e dietro il mio cuore, fino a li.
L’abbraccio, lungo. Nemmeno mi sono accorto di quanto eri sudata. Di quanto avevi il viso stanco, degli occhi che sono ombrati ma non per quello che è appena accaduto. L’instante prima avevi le mani che ti stringevano la vita, con quella posa delle donne che comunica: “ok, posso affrontare anche questa”.
Non si sa mai cosa dire, come dirlo e alla fine le mie di parole non sono così importanti come le tue: “Ho lasciato tutto in campo, ho imparato anche a perdere”, una pausa di qualche secondo che s’è allungata lontano fuori da quale palazzetto per arrivare oltre oceano. “Quest’anno ho perso qualcosa di più grande”. Le altre parole, quelle sul telefono alle 3 del mattino quando ti preoccupi di me, ed hai appena perso lo scudetto. Rimarranno istanti preziosi nascosti alla base di quello che riuscirà a scrivere.
Come faccio a non commuovermi, a non amarvi?
M’hai fatto un regalo e non sai nemmeno d’averlo fatto.
Il viaggio di ritorno è senza code, lavori e l’unico impegno a parte scoprire perché Marco si rifiuta di accompagnarsi casualmente con delle sue amiche, è quello di scoprire dove si mangia. Finiamo alla Fata, costante luogo dove si può mangiare di tutto con la cucina aperta fino all’alba. Ci saremmo voluti fermare a Pinillo, ma la cucina chiude all’una di notte e noi siamo lunghi di molto in questa notte post finale.
Il gulasch alle 2 del mattino è come prendersi un pugno nello stomaco solo per vedere se sei ancora vivo. Birra gelata a fermare la stanchezza. Vocali assurdi sul telefono e le cose che ho perso che mi scivolano via dalla mano come granelli di sabbia. Aspetto ancora un po’ sveglio, che arrivi il rosso dell’alba, per un nuovo giorno. Arriverà comunque, incurante delle nostre vittorie e delle nostre sconfitte. Se ci stringiamo vicini, se impariamo a rispettare quello che non conosciamo degli altri, allora forse la vittoria sarà più dolce e la sconfitta, meno dolorosa.