Perché le guardo, quando gli uomini sono meglio

Avevo questo pezzo in mente da tanto, lo rimuginavo per trovare le parole giuste, il tempo giusto. Forse però queste erano solo delle scuse. Perfino il titolo l’ho cambiato due volte prima di decidermi.
Nelle ultime settimane tra le varie Final Eight, ho incontrato tante persone, addetti ai lavori, semplici tifosi, giocatori e dirigenti. Più di una volta, in forme diverse mi sono sentito rivolgere più o meno la stessa domanda.

“Perché seguo il futsal femminile”. Il tono della domanda era di sovente poco interlocutorio, più spesso era di commiserazione. Come se stessi investendo male il mio tempo e quel poco di talento che alcuni mi riconoscono.
La successione cronologica di partite al maschile e al femminile hanno acuito la necessità di una riflessione, mia, su quella domanda che in fondo non m’ero mai posto davvero.

Da appassionato riconosco che gli atleti uomini sono: più veloci, forti e praticano agonisticamente questo sport al massimo livello anatomicamente possibile. Molti argomentano che una squadra femminile di massimo livello ad essere generosi  è paragonabile ad una buona squadra di qualche serie minore. Qualche tifoso, quei pochi, potrebbe perfino pensare di poterle battere sul campetto il giovedì sera.
Tutte queste ragioni però, sono principalmente biologiche e non hanno nulla di logico. Circoscrivono una mentalità che probabilmente a che fare con la diffusione di uno sport, con l’appetibilità verso il pubblico, insomma con la sua vendibilità.

In realtà queste ragioni sono irrazionali, patologiche e croniche.
La percentuale di passaggi riusciti, la velocità del tiro, la capacità di coprire il campo, sono abilità che nulla hanno a che fare con le ragioni che spingono eventuali tifosi, appassionati, a seguire uno sport.
Vi siete mai chiesti perché guardiamo una partita?
Ci sono dure ragioni principali: il premio e le linee narrative.
Guardiamo gli sport olimpici, anche quelli che non seguiamo mai come il Curling, perché in palio c’è una medaglia d’oro. La medaglia olimpica è un premio ambito. Ci interessiamo di questi che spazzolano il ghiaccio con uno scopettone perché rappresentano la nostra nazione. Siamo patriottici, eccovi servita la linea narrativa.

Mettiamo che in tv si trasmetta una sfida di uno contro uno, tra due giocatori scarsi di basket. La guardereste? No, “chissene”. Ma immaginate che arrivi Giorgio Armani e metta in palio un milione di euro per chi vince la sfida. Vi vedo già sistemare la sedia davanti allo schermo mentre scoppiettano i popcorn. Potreste perfino essere un filo emozionati, per quello che state guardando. Pensate non sapete nemmeno chi sono e sono pure scarsi. Immaginate che una delle due sia la vostra compagna, amica, fidanzata, insomma una cosa così. Quei soldi le permetterebbero di ripagare il debito con la banca, comprare finalmente casa e far ripartire la sua attività. Voilà: premio e linea narrativa.

Assorbiamo lo sport, il calcio ad esempio, anche attraverso degli strumenti passivi. Pensate solo alle due recenti serie tv di Netflix sul Francesco Totti e Roberto Baggio. Pensate agli alert sul vostro smartphone ogni qualvolta cambia un risultato di Serie A. Paradossalmente se questo sport fosse ridicolo, riuscirebbe in qualche modo a generare interesse. Gialappa’s Band, vi dice qualcosa?

Molti tifosi armati di questi preconcetti: non tirano abbastanza forte, non fanno abbastanza falli, subiscono troppi gol, non ne segnano abbastanza, semplicemente si disinteressano. Anche se la pandemia ha generato inevitabilmente una maggiore esposizione, interesse anche verso lo sport al femminile, poco è cambiato nei momenti di “ritorno alla normalità”. Badate bene però, una maggiore esposizione non si traduce in maggiore affluenza di pubblico. Seppellire lo sport al femminile in una programmazione infinita di partite, senza approfondimenti, senza linee narrative non genera nessun interesse addizionale.

Non funziona nemmeno la frase alla fine di “Field of Dream”: “If you build it they will come”. Se lo costruisci loro verranno, vale se a quel loro offri una ragione per farlo, racconti una storia, una nella quale si possano specchiare e non la seppellisci in mezzo ad una montagna d’informazioni inutili. Se gioco al lunedì pomeriggio, quando non lavorano solo i parrucchieri. Se arrivo dopo. Paradossalmente se applicassi queste tematiche anche agli sport di nicchia al maschile, non virerebbero lontano le conclusioni.

M’accorgo di non aver risposto a quella domanda iniziale. Perché racconto di donne che praticano sport. Donne confinate in uno spazio più stretto di quello che meritano da pregiudizi di genere, sessuali, biologici, culturali. Ho pensato a lungo ad una risposta, l’unica che sono riuscito a trovare è: “m’è sembrata la cosa giusta da fare”.

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