Parte così un viaggio verso nord. Uno di quelli che avrò compiuto almeno una ventina di volta in questa stagione.
Traffico, auto in colonna, camion e anche dei camper. Va a finire che me ne faccio prestare uno, anche solo per andare e non dover tornare subito, per far il nomade e fermarmi lì dove mi pare.
La statale è una condizione di stato, d’attraversamento. Di vite, di luoghi, di momenti. Come la ferrovia, che spesso le passa al fianco. Incontro tante vite sconosciute, nelle altre auto, davanti ai negozi ancora aperti, che vanno verso la spiaggia di questa estate che è esplosa negli intervalli dei piovaschi che arriveranno.
Sfido la sorte, m’infilo in autostrada e finisco incastrato in galleria prima di Grottammare. Che c’entra questa condizione con Taty? Sono fermo. Prendo il telefono e le mando un cuore. Non so davvero cosa dirle, forse ho solo timore di dire la cosa sbagliata. Oppure certe cose è difficile, complesso, spiegarle con le parole.
Oggi è come se andassi a vedere il balletto sapendo che manca la prima étoile. Lo spettacolo va in scena ugualmente, ma non è la stessa cosa.
Le tifoserie spesso sperano di non vedere in campo, il migliore degli avversari. Accade solo nello sport, in quelli di squadra. Un po’ come andare in un ristorante stellato e sperare che vi cucini la vostra ex che non riusciva a farvi nemmeno una frittata.
Messaggi vocali.
Quelli che mi scambio con chi è avanti a me nel viaggio.
Quelli che arrivano fino dal Brasile. “Fai il tifo per noi oggi?” Sempre per gli “underdogs”. Avete fatto coso a quanto è affollato intorno a chi vince. Gli altri volti, quelli li posso riconoscere più facilmente, in fondo nella vita perdiamo più spesso. Vincere è un accidente, continuare a vincere una rarità.
Finisce che la sua voce tranquillizza me, invece dovrebbe essere il contrario. I problemi sono meno importanti, tutti e di tutti, quando li filtri attraverso un dolore così grande.
“Passo al Conad, vuoi qualcosa?”.
“No”.
Al termine esco, con la colazione del campione. Una bimba s’avvicina, m’offre una moneta mentre frugo tra le mie. Come i bimbi della foto di mia sorella, quelle giù nel corno d’africa. Trash food come se piovesse. Dev’essere colpa proprio della catena, non m’accadeva dai tempi del punto vendita a Piazza Bologna. Quello che poi c’hanno costruito, almeno ci stanno provando, la metro davanti.
I palazzetti d’estate si riscaldano, quando poi c’aggiungi il pubblico, diventano anche roventi. Il suono però cambia tutto, come nei film, almeno quelli di un certo tipo. Il fragore l’avverti anche se è un ingresso controllato. C’è Giulia, con la mano quasi recisa in un incidente con lo scopettone del cesso e il suo contenitore di vetro.
Visi tirati.
Visi sorridenti.
C’è chi gioca bene, chi non gioca affatto. C’è chi si dimentica l’avversario, chi il compagno di squadra. Grazie Federica per la pallonata. La reflex ha resistito e anche io, almeno un po’. Il monitor che volevo usare, lo devo montare con congruo anticipo e anche esercitarmi a farlo. Ci sono quelle partite che al calcio d’inizio ti mancano le forze, quelle in cui il cuore ti batte forte anche se provi a ripetergli che deve stare tranquillo. L’hai già giocata una finale, sei già stata li, non è niente di diverso. Ecco, questa è proprio così.
Invece no, cambia sempre tutto, anche se sembra restare immobile, quell’immagine nel tempo. C’è quel solito maledetto cronometro che corre violando le leggi della fisica e forse come in un buco nero, quelle leggi non valgono più. Giochi bene e sei felice. Giochi male e cerchi di recuperare con la giocata successiva. Potresti perfino fare peggio, per la smania di fare meglio.
Fischi, dagli spalti, dagli arbitri. Com’è Chiara quella frase tua e del tuo allenatore che m’è piaciuta tanto proprio sugli arbitri? M’è piaciuta anche quella che ho ascoltato in una Final Eight a Bassano del Grappa. Se dovessi credere alla malafede non seguirei nulla, nemmeno le fiction sula Rai. Non sei in malafede, sei scarso. Come accade anche ai giocatori.
Metto via altri chilometri, la pioggia, le deviazioni e ci metto anche qualche secondo a trovare il pulsante che impedisce che s’appannino i vetri dell’auto. C’è la musica, rigorosamente non italiana. Alcune canzoni ricordano qualcosa, altre qualcuno, alcune mancano. Così come manca il nome della prossima rubrica, qualcosa sul genere “I diari del Rum”, però diversa. Ho tempo, non troppo che anche quello scade, come su un implacabile cronometro.