Le mie favole non hanno il lieto fine

Le favole non finisco mai bene. Almeno non le mie.
Questa volta mi sono seduto vicino ad Alice. “Eddai fai il tifo per noi”. In mezzo all’altra squadra, per vedere dei visi felici. Perché ricordo bene come vanno a finire le mie di storie.
In inglese si dice “I have been there, i got the scars”.

Ho tanto talento seduto in tribuna con me, mi chiedo come mai non sia in campo. Non capisco però nulla di questo sport e ancora meno di come si racconta lo sport.
Non posso fare le foto nel corridoio prima dell’ingresso in campo, off limits. Niente visi, niente sguardi.

Al gol del vantaggio, Alice era in lacrime e allora ero triste per lei, perché le donne non devono piangere. Per nessuna ragione. Sconsolata.
Al gol del pareggio, ho pensato che fosse davvero colpa mia. La sfiga non esiste vero però poi ti resta addosso il dubbio.

Alice è così felice che scivola, ride, piange, esulta. Tutto miracolosamente allo stesso tempo e io che la guardo e sono felice per lei perché come non si fa a condividere tanta gioia. M’ha quasi abbracciato, sottolineo il quasi.

Al primo vantaggio nei supplementari, mi sono ammutolito. “Ecco ora scendono e pareggiano. Vedrai se non succede”. Te la ricordi Nicola questa frase? Vedevo solo quella scena. Al gol del doppio vantaggio mi sono detto: “Ecco, almeno una cazzo di favola. Una in due anni di storie piegate nel verso sbagliato. Finalmente sono riuscito a raccontarla.

Sono rimasto però vicino ad Alice. Piangeva inconsolabile. Nessuna parola l’avrebbe aiutata lo so, eppure sono rimasto li a carezzarle la testa anche se ha un taglio di capelli inguardabile. Perché il carro dei vincitori è sempre quello più affollato, perché ci capita di perdere più spesso di quello che vinciano e perché lo so come ci si sente. Quelle cicatrici sul cuore, fanno male, ogni volta. Come la prima volta.

C’è la rabbia, l’orgoglio, la delusione e poi un sacco di sentimenti che si mischiano con la fatica, con chi festeggia e chi si sente perduto e forse come raccontava Tolkien chi vaga non si è davvero perso.

Mi sono seduto su uno di questi sedili celesti, che non ho ancora capito se mi ricordano la Lazio o il Pescara. Ho preso il telefono e ho scritto a Nicola: “Non lo so che cazzo c’è da piangere in una storia così, ma sarà che mi sono avanzate quando me le sono tenute invece di versarle. Sarà che mi vergogno come un ladro a stare qui, come se non fosse il mio posto. Sarà che ‘sta cosa, quella che è successa oggi, l’ho vista solo io. Grazie, per avermi indicato la direzione in cui guardare.

“It’s ok not to be ok”. Così recita il titolo di una serie tv coreana. Fatta di favole, di personaggi al limite della follia o forse semplicemente e magnificamente normali ma in modo diverso. Ecco oggi uscendo da quel palazzetto, cercavo consolazione in quella che considero una riflessione geniale.

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